L’ultima intervista con Paolo Prodi "I miei Fallimenti politici". L'intellettuale disorganico e il senso della profezia

Questo colloquio con Paolo Prodi[1] nasce dietro la mia richiesta[2] di voler fare il punto sui suoi ‘Percorsi di ricerca’ che stava ultimando per Il Mulino[3]. In particolare, volevo discutere con lui dei tanti spunti e delle suggestioni che le corpose introduzioni a quei volumi mi avevano suscitato[4]. In quel periodo stavamo raccogliendo materiale per preparare questo numero (avevamo già registrato la graffiante intervista a Goffredo Fofi[5]) mentre lui mi diceva che si stava accingendo a scrivere l’ottavo volume dei suoi cammini di ricerca, quello sulla sua esperienza politica. Insomma sul tavolo c’erano tante domande e in più il desiderio di confrontarmi sulla passione comune per Franz Rosenzweig[6], un filosofo ebreo che avevo scoperto essere stato un punto di riferimento fondamentale nelle ricerche di Prodi: “il dualismo tra il potere politico e il potere sacro nell’Occidente cristiano”[7]. Alla mia richiesta di incontrarlo, visto anche il suo stato di salute, mi rispose che non garantiva risposte adeguate ma che avrebbe visto come un regalo la visita perché avrebbe amato ‘allargare’[8] questi discorsi.

E così la mattina del 15 giugno del 2016 vado a Bologna, a casa sua, una sorta di fortino. Lo trovo nello studio e, seppur costretto su una sedia a rotelle e dolorante, è comunque vispo, a volte anche sorridente; ho netta la sensazione che voglia raccontarsi, che desideri cogliere questa occasione per fermare su ‘nastro’ l’indice di un libro che rischiava di non avere il tempo di scrivere.

Siamo quindi partiti dal suo ruolo di intellettuale disorganico, e dopo una ricostruzione di una lunga esperienza a suo dire fallimentare, il discorso si è spostato sul versante più teologico ma non meno politico, ovvero su quegli intellettuali e monsignori latino-americani che erano stati da poco riabilitati da papa Francesco, verso il quale Prodi confessava subito uno stato di vero e proprio ‘innamoramento’. Nel distinguere la teologia anticoloniale del suo amico Ivan Illich (processato dal Santo uffizio verso la fine degli anni ’60) dalla ‘teologia della liberazione’ secondo lui troppo schiacciata ideologicamente, arriviamo a parlare del rapporto tra l’intellettuale e il profeta. Prodi aveva da poco ultimato il suo contributo per il libro Occidente senza utopie che stava scrivendo con Cacciari[9], così ci intratteniamo a parlare di tende e accampamenti, ovvero del conflitto tra profeti e istituzione, poi del ruolo costituzionale ed escatologico dei comandamenti, e del coraggio del dire il vero a rischio della propria vita (parresia) nell’ultimo Foucault. In conclusione giungiamo fino all’oggi, alle preoccupazioni per la svolta antropologica occidentale verso il lontano oriente a scapito della propria plurimillenaria vocazione dualista (proprio quando l’Islam la sta forse lentamente conquistando), sulle esecuzioni capitali di massa in Cina e la differenza con le condanne a morte da parte della Santa inquisizione. Le ultime battute, forse non a caso, sono per Giordano Bruno[10].

 

D. Professore, in questo numero ci interroghiamo sulle cause della crisi della politica e sul ruolo degli intellettuali. Lei sta ultimando una serie di volumi che raccolgono per lo più i suoi articoli, interventi intorno a tematiche a lei più care. L’ottavo dovrebbe essere quello dedicato alla sua esperienza in politica. Possiamo ricostruirla brevemente?

R. In quest’ultimo volume, che per inciso le dico che vorrei intitolare “i miei fallimenti politici”, anche se mia moglie è contraria [ride], intenderei ripercorrere le mie vicende di intellettuale ‘disorganico’. Riassumendo posso dirle che ho iniziato dalla sinistra DC con Luigi Gui[11], costituente e più volte ministro, poi, prese le botte, negli anni Settanta con lo storico Pietro Scoppola abbiamo costituito la cosiddetta ‘Lega democratica’[12]. Negli anni Ottanta, tornato dall’America dopo aver scritto il Sovrano pontefice, De Mita mi chiese di collaborare con la Dc come capo dell’ufficio cultura. Gli risposi: “Io collaboro ma senza prendere la tessera”, e così avvenne. La DC allora era fatta così, mi diede questo incarico senza essere iscritto al partito.

Senza giuramento, si potrebbe dire, sulla scia dei suoi studi[13]?

Esattamente, senza giuramento, e non è poco, sa. Comunque dopo tre anni gli ho detto che andassero al diavolo, che la sua anticamera mi sembrava un ‘bordello’ [ride].

Insomma, una collaborazione difficile?

Beh, non voglio dire che sia stata una cosa pacifica, però, per due o tre anni ho vissuto a piazza del Gesù. Secondo me queste esperienze sono importanti e fanno bene agli intellettuali. I nostri colleghi molto spesso credono che basti studiare. Sono d’accordo che gli archivi sono importanti, sono la base della ricerca storica, però insomma…

Siamo giunti agli anni Ottanta.

In questi anni, intanto c’è stato l’assassinio di Roberto Ruffilli[14]. È stato molto importante per me. Eravamo molto amici. Il documento che le Brigate rosse hanno distribuito dopo averlo ucciso, diceva che lui lavorava per un gruppo di Trento, che sarebbe poi l’Istituto storico Italo germanico[15] che allora dirigevo. Su questo barbaro omicidio, tra l’altro, c’è ancora del mistero perché tutt’oggi non si è capito chi furono i veri mandanti.

Ad ogni modo, poi negli anni Novanta ci fu l’esperienza della Rete di Orlando, quella a mio avviso più fallimentare di tutte.

Perché?

Beh, perché trovo buffo il fatto, che proprio io, che avevo sempre lottato per la costituzionalizzazione dei partiti e quindi per l’articolo 49 (era l’antico progetto di Sturzo del ’58), mi ritrovassi invece in un movimento che nel referendum del 1993[16] si schierava per il no. Insomma, a mio avviso, si andava indietro.

E adesso?

Beh invece adesso con i Movimenti è ancora peggio [ride]. La Rete non aveva nemmeno quella cornice statutaria. All’epoca infatti ruppi prestissimo con la Rete. Insomma ho rotto tutto!

Però ci ha provato, ha sperimentato!

Sperimentato sì, sono stato un po’di tempo in parlamento. Per me è stato importante vedere come funzionava. Poi starci di più no, eh. Per fortuna hanno chiuso la legislatura. Cosi me la son cavata con soli due anni e mezzo. Poi è entrato mio fratello, quello piccolo, e mi sono tirato da parte, e dopo non ho più avuto tentazioni.

Beh certo, se mi passa la battuta, che ‘giuramento’ e ‘tradimento’ hanno avuto una indubbia rilevanza storica nelle vostre vicende politico-intellettuali…

(ride molto). La settimana scorsa ho letto on-line un articolo di un ex di Rifondazione dal titolo “non tutti i Prodi vengono per nuocere”[17] [ride molto]. Gli ho detto: “Ehi!!”. Ma a parte gli scherzi di cattivo gusto, aveva letto il mio libretto sulla Rivoluzione[18] che gli era piaciuto molto.

Già, il complesso rapporto tra gli intellettuali e la rivoluzione.

Si, l’intellettuale ha ormai perso questa funzione. Invece ai tempi del PC c’era davvero, non solo per la scuola delle Frattocchie[19] intendo. C’era anche per i cattolici con i legami della FUCI, sia ben chiaro. Ma è saltato tutto per aria. Un po’ è la storia anche della mia generazione. Devo dire che in questi cinquant’anni le abbiamo perdute tutte.

A questo proposito, Goffredo Fofi nell’intervista[20] che ci ha rilasciato (e che pubblichiamo in questo stesso numero), sostiene che gli intellettuali non si impegnano più direttamente nella politica e si accontentano di legittimarsi a vicenda citandosi l’un l’altro. Nessuno ha più il coraggio di agire nella prassi politica, di metterci la faccia. L’intellettuale engagé, impegnato ideologicamente, è scomparso del tutto?

è diventato disorganico per forza. Non ha più alcuna funzione nella costruzione di una ideologia.

Però da un’altra parte, sotto altri cieli, sembra spuntare un’alba diversa. Non tutto appare perduto, se si pensa all’attuale papa che viene dall’Argentina, che torna ad usare argomenti post-conciliari che non si sentivano da cinquant’anni, decisamente benevolo nei confronti dei teologi della liberazione. Strano che alla fine di un ciclo, riappaia qualcosa che rimescoli un po’ tutto. Come la vede?

Che supera il ciclo! È la cosa che mi ha stupito, meravigliato, innamorato. Non so cosa più dire. In questo libretto su Dossetti[21] metto anche un po’ la storia della mia amicizia con Ivan Ilich[22], che qui è solo accennata ma c’è bisogno che la tiri fuori perché è stata l’amicizia più importante della mia vita.

Ivan Illich[23], lo scrittore filosofo, che è stato anche sacerdote, e ha operato molto in America latina?

Si, in quel tempo, negli anni Sessanta, intendevo andare in America latina. Poi c’è stata da una parte l’ondata reazionaria e dall’altra quella ideologico-marxista che hanno schiacciato, in un certo senso, i ‘bergogliani’ esistenti allora. In quel periodo mi recai in America latina nel nord est del Brasile, per girare un documentario televisivo (che poi andò in onda nel ’67) intitolato: “Cristo libertador”[24]. Bada bene, due o tre anni prima della teologia della liberazione. Ma lì il problema è che si era schiacciati tra una forte ideologia marxista, come dicevo, anche intorno ad Ivan Illich, a Cuernavaca in Messico.

Una sorta di accerchiamento ideologico?

Sì, c’era una sorta di movimento di guerriglia mica da ridere. La teologia della liberazione è nata in qualche modo schiacciata. Poi ad Ivan Ilich hanno fatto un processo al Santo uffizio, anche se non lo hanno condannato[25]. Quella è stata un’esperienza importante per me. A me interessava verificare la possibilità di un meticciato culturale. E non era proprio possibile. O almeno io ho dovuto ripiegare e tornare in Europa. Oltretutto a Recife, l’arcivescovado venne mitragliato di notte. Mi sono trovato nei pasticci, in Brasile tutti i miei amici erano in prigione.

Addirittura?

Sì, sì.

Questo negli anni ’60?

Sì, nel ’66. I domenicani di Rio, che erano i più avanzati, sono stati stroncati prima della teologia della liberazione. Sono tutti avvenimenti accaduti prima, perché la dittatura in Brasile avviene nel ’66.

Tornando a Bergoglio, ricordo come in una conferenza stanza pochi giorni dopo la sua elezione, la presidente dell’Argentina Kirchner, riferendo del suo un incontro privato con il papa, si diceva assai sorpresa di averlo sentito parlare della “Patria grande”, uno slogan bolivariano che richiamava il progetto dell’unione politica ispanoamericana. Ho trovato singolare che non sia stato ripreso dai media italiani e comunque non smentito. Se si mette insieme questa presunta affermazione del neo papa con uno dei suoi primi atti ufficiali, ovvero sbloccare la canonizzazione di Monsignor Romero, viene fuori una visione chiara della svolta che il papa intende far fare alla Chiesa, riannodando alcuni fili spezzati con il passato.

È stato un avvenimento che non avrei mai sperato o sognato che potesse accadere. Io da parte mia, come storico, la leggo come un gesuita, un Ignazio che negli anni ‘40 del 1500 cerca di fare lo spirituale quando tutti intorno a lui sono in assetto di guerra e si affrontano sul campo di battaglia. Perché nel 1541 fallisce le trattative di Ratisbona [tra cattolici e protestanti, ndr]. Si! Questo Bergoglio sembra proprio venire dalle viscere della chiesa, non dalla periferia. Perché le viscere sono quelle ignaziane.

In effetti, vivendo a Roma e frequentando da anni l’Università Gregoriana, ho avuto modo di conoscerli da vicino e mi pare che Bergoglio rappresenti ed eserciti al meglio la capacità politica dei Gesuiti di mediare e innovare allo stesso tempo.

Confesso di conoscerli poco, adesso, perché purtroppo da queste zone sono scomparsi decenni fa. Prima, fino alla seconda guerra mondiale erano ben presenti. Adesso mi sembra non ci sia più niente. Invece, han mandato questo vescovo Zuppi che mi pare molto interessante. Si muove in modo folle, con una velocità e una capacità di entrare in tutte le situazioni e quindi speriamo bene, dai.

Professore, sul rapporto tra chiesa e politica ha scritto moltissimo. In particolare sulla missione profetica della chiesa e sull’uscita di scena del vero profeta (mi riferisco al suo saggio sul Savonarola in “Profezia vs Utopia”), quello che critica frontalmente il potere, un intellettuale ante litteram. In questo senso parla di declino della profezia in utopia[26].

Certo, il cosiddetto ‘non luogo’, in cui la chiesa c’ha messo del suo facendo da parte Rosmini e incoraggiando invece la visione e la devozione, da cui Fatima[27].

In questa sua ricostruzione, mi ha colpito l’importanza che dà al tema della visione. Mi riferisco alla sua analisi del quadro di Peter Paul Rubens La madonna delle grazie nella Chiesa nuova a Roma. Lei scrive: “Nasce e si diffonde il costume di incastonare l’icona sacra come reliquia o quadro miracoloso all’interno di una composizione pittorica o architettonica che acquista la funzione di sceneggiatura e di mediazione. Solo i santi possono contemplare ‘immagine o dietro di essa il prototipo: il semplice cristiano ha bisogno della loro intermediazione. Si apre il secolo delle visioni”[28].

Si, la rappresentazione dei nuovi santi imposti dalla Chiesa di Roma come strategia di comunicazione universale.

Che arriva fino a noi. Basti pensare ai santini che i soldati nelle trincee della prima guerra mondiale avevano in mano come conforto[29]. Avevano un ‘visione’ privata e personale a portata di mano (prêt-à-porter). Inscatolata e pronta all’uso, si potrebbe dire.

E morivano per questo! È il periodo che definisco delle religioni politiche[30].

Professore, per cambiare solo apparentemente discorso, ho notato che nei suoi scritti c’è un’attenzione particolare alle problematiche giuridiche, e non mi riferisco solo al suo Una storia della giustizia[31]. Ma lei si è laureato in giurisprudenza o in lettere?

Io ho fatto Scienze politiche[32], però bisogna dire che ai nostri tempi c’era un sacco di diritto: diritto privato al primo anno, poi biennale di diritto amministrativo, biennale di civile, e poi la Cattolica a Milano era una bella scuola. Ho fatto, per esempio, diritto privato e diritto del lavoro con Luigi Mengoni[33], che oltre ad essere un grande giurista era anche un grosso pensatore. Poi da ragazzo il diritto mi piaceva molto.

Ecco allora, partendo dal titolo del suo ultimo lavoro più corposo, ovvero Settimo non rubare[34] la cui interpretazione estensiva consentirà ai francescani di rivoluzionare il medioevo aprendolo al mercato, vorrei sottoporle un quesito che intreccia le tematiche escatologiche della profezia con quelle più propriamente giuridiche del comandamento. Che ruolo svolge questo dispositivo giuridico all’interno della storia occidentale? Essendo a metà tra regola etica e ammonimento divino, tra la Legge e il diritto, possiamo individuare il comandamento come ‘il grimaldello’ giuridico che rompe l’identità legge tra e potere?

Si, è certamente in dialettica con la legge positiva e con il potere.

è quindi la sua ambiguità a tenere costantemente aperto uno spazio escatologico in cui si insinua il profeta?

Guardi, a tal proposito, sto scrivendo un libricino con Massimo Cacciari. Mi permetto di richiamarne l’esergo, che prendo dal libro dei Numeri dell’antico testamento. Io l’ho trovato formidabile.

“Quel giorno il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i Settanta uomini anziani.”

Qui io ci vedo il passaggio istituzionale da Mosè ai Settanta, e quindi, per stare nelle categorie di Max Weber, dall’uomo carismatico all’Istituzione.

“Quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito.”

L’istituzione, in pratica, non profetizza più. Si è passati dal ‘carisma’ al potere istituzionale che non ha più bisogno della profezia perché ha il potere incorporato.

“Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro: erano tra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento”.

Questi due ‘profeti’ non vanno nella tenda-palazzo, rimangono piuttosto fuori delle istituzioni. Io ho trovato questo passo meraviglioso perché mi permette di riprendere la celebre tesi di Weber sul leader carismatico, rovesciandone però il suo discorso.

“Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: “Edad e Medad profetizzano nell’accampamento”. Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: “Mosè, mio signore, impediscili”. Ma Mosè gli disse: Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito” (Numero 11, 25-29)”.

Trovo assai emblematico questo “Fossero tutti profeti”, ovvero una dialettica tra le istituzioni. Non avevo mai colto l’importanza di questo passo come non avevo colto l’importanza della parresia.

Il coraggio di dire il vero davanti ai potenti. Foucault su questo tema della parresia ha tenuto i suoi ultimi due corsi[35].

Confesso che questo ultimo Foucault lo conosco poco.

In Foucault la parresia[36] viene descritta come quell’atto coraggioso di dire il vero davanti al potente a sprezzo anche della vita. È un elemento profetico precristiano, se si può dire così.

Cioè la parresia costituisce l’elemento di continuità?

In un certo senso, perché Foucault traccia una distinzione netta tra il profeta e il parresiasta. Il profeta parla per conto di Dio, il parresiasta parla per se stesso; non v’è la trascendenza. Foucault mette il profeta in ombra per esaltare il coraggio, potremmo dire ‘nichilista’, di colui che dice il vero davanti al potente[37].

Oggi avrò il mio da fare per approfondire quest’ultimo Foucault. Mi dispiace non averlo avuto prima perché l’avrei utilizzato di più.

Ma tornando al rapporto tra profezia e comandamento, possiamo definirlo quest’ultimo alla fine intrinsecamente profetico? Cioè portatore di valori da realizzare nel tempo, che provocano l’azione?

Sì. Penso proprio di sì. È diverso dai comandamenti cerimoniali, liturgici, che hanno un diverso valore, perché rappresentano norme di comportamenti codificati. Mentre questo no, parla dall’alto[38].

Quindi oggi lei vedrebbe la funzione del comandamento nei principi costituzionali?

Li vedrei fuori dalla costituzione, ma ci devono certamente essere. Perché, se non ci sono, cambia tutto. Basta vedere il rapporto con l’Islam. Io sono ignorante come una capra, per carità, non so una parola di arabo, ma non mi sembra che i nostri islamologhi capiscano di più. Perché, vede, rimane il dato che la forza di questo Islam (moderato non moderato, radicale o non radicale che sia), stia nel fatto che contiene un’alterità, un appello alla trascendenza che noi come Occidente stiamo perdendo[39]. Altrimenti a mio avviso non avrebbe tutta questa forza. Certo, questo scatena anche la pazzia, ovviamente.

Oltre a queste considerazioni sull’Islam che pone nell’ultimo capitolo del suo Il tramonto della rivoluzione[40], mi hanno colpito anche quelle sul ruolo culturale della Cina in Storia moderna o genesi della modernità[41], sul modello confuciano.

Il confronto ultimo è con la Cina; credo che ci sarà e sarà inevitabile. Qui a Bologna c’è una signora che insegna Cinese, Amina Crisma, con cui discorriamo a lungo, il cui marito è un amico sociologo, Capecchi. Hanno una rivista che si chiama “Inchiesta[42]”. Comunque ho letto qualcosa di Confucio e lei mi ha spinto molto a queste riflessioni sul neoconfucianesimo come ordine del mondo.

E in effetti, come lei dice, “ci troviamo di fronte ad una svolta antropologica”[43], che pare si stia diffondendo quanto meno in Cina, basata sul modello del saggio confuciano[44], legalista e al tempo stesso comunitario. Si pensi al premio Confucio adottato dai cinesi in antitesi al Nobel.

Che l’uomo però possa scegliere tra il bene e il male, a me pare che sia una condizione essenziale dell’Homo Europaeus. Se non può scegliere tra il bene e il male, pazienza. Sarà un’altra umanità, saremo tutti innesti di cellule.

Saremo? Queste cose stanno già avvenendo.

Eh sì, perché queste cose vanno avanti a delle velocità impressionanti.

Eppure so che la Cina ha mandato alcuni suoi funzionari in Italia per studiare il nostro ordinamento, il diritto civile italiano e il sistema fiscale.

Sì, questo da tempo.

Ciò non fa sperare ad un possibile innesto tra le due civiltà?

Rimango pessimista, anche se essere ottimisti o pessimisti sono stupidate. Non c’è dubbio, anche noi ne abbiamo fatte tante, nessuna nostalgia. Però rimane una cosa diversa una condanna a morte nel Quattrocento o adesso questi massacri. Sarà banale, ma mi hanno sempre colpito cerimonie dei condannati a morte. Ne discuto spesso con il mio amico Prosperi[45], con cui abbiamo delle visioni diverse su queste tematiche. Ma il condannato a morte era visto a volte come un santo. Aveva peccato, si redimeva, veniva impiccato.

Cioè, se capisco bene, lei dice che nel Quattrocento durante un processo e una condanna a morte, l’imputato era giudicato per la sua integrità morale mentre in Oriente, come in Cina, le esecuzioni di massa non considerano la singolarità dell’individuo perché non tengono conto della coscienza?

Sì, non c’è l’innocente.

Al di là della questione della pena di morte, dai suoi giudizi su Islam e Cina mi sembra che in questi ultimi anni si stia un po’ divertendo a provocare il dibattito?

Divento più spudorato, su questo non c’è dubbio. Un tempo non me lo sarei permesso. Adesso, non ho letto l’ultimo Foucault, ho letto i quaderni precedenti, però mi sono stancato. Ma mi diverto lo stesso. Alla mia età, non devo mica fare un concorso.

A proposito di stanchezza, non vorrei infierire trattenendola ancora, meglio che vada.

Ma prima mi permetta di darle il settimo volumetto fresco di stampa su Dossetti[46].

Paolo Prodi “Giuseppe Dossetti e le officine bolognesi”, copertina

Le faccio notare la copertina: riproduce un particolare della stampa del Mitelli del XVII secolo. è il regalo di Delio Cantimori per il mio matrimonio che tengo appeso di là nel salotto vicino al pianoforte. Guardi cosa c’è scritto in alto: “è dedicata a chi si stima savio. Quasi tutti li dàn, chi più chi meno”. La ritengo una dedica molto importante [ride].

Grazie mille, lo leggerò con particolare attenzione, allora.

Grazie a lei, invece, oggi ho il mio da fare per studiarmi quest’ultimo Foucault [ride]. Poi devo scrivere questo ottavo quaderno sulla mia ‘fallimentare’ esperienza in politica, ma subito dopo, dagli 85 anni in poi, se vivo ancora, mi studio Giordano Bruno.

 

[1] Paolo Prodi (1932-2016) è stato uno storico della modernità, accademico dei lincei, presidente della Giunta Storica Nazionale, membro dell’Accademia Austriaca delle Scienze e premio ‘Humboldt’ nel 2007. Tra i fondatori de “Il Mulino” e dell’Istituto storico italo-germanico di Trento, delle sue opere principali si segnalano: Il Cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), 2 voll., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, (1959-1967), e poi (tutte per “Il Mulino”) Il Sovrano Pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, (1982); Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, (1992); Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, (2000); Settimo Non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, (2009).

[2] Ho conosciuto Paolo Prodi quasi una quindicina di anni fa quando gli chiesi un articolo per una rivista di cui mi occupavo all’epoca sulla distinzione tra peccato e reato: La sacralità del potere e la distinzione tra peccato e reato nella tradizione occidentale [in “Rivista della Scuola superiore dell’economia e finanze”, 11, novembre 2004, p. 34-43; ora in  Paolo Prodi Homo Europaeus, Bologna Il Mulino, p. 2015 con il titolo Cristianesimo e giustizia, peccato e delitto nella tradizione occidentale, pp. 105-120]. Accettò molto volentieri e concordammo anche una domanda da rivolgere al filosofo del diritto, intervistato nello stesso numero sul tema del diritto penale internazionale [“I paradossi del diritto penale internazionale”, Intervista a Danilo Zolo, ibid, pp. 8-14]. Non fummo soddisfatti della risposta ma questo ci permise di stringere da allora un rapporto e di immaginare una collaborazione più organica con il gruppo di ricerca che allora stava mettendo su (insieme allo storico Giacomo Todeschini) sul tema della ragione economica medioevale. Prendemmo contatti e avviammo una prima collaborazione con un numero sulla Povertà, poi la rivista venne chiusa non se ne fece più niente. L’ultima volta ci siamo scritti a metà ottobre del 2016, quando mi disse che non stava affatto bene e che non aveva ancora scritto l’ultimo di una serie di quaderni sui suoi singoli percorsi di ricerca, quello sulla sua biografia politica: “se tutto va bene uscirà l’anno prossimo”. Invece, qualche mese dopo ci ha lasciato.

[3] Sono 7 volumi anche questi tutti per “il Mulino”: Storia moderna o genesi della modernità (2012); Cristianesimo e potere (2012); Profezia vs utopia (2013); Università dentro o fuori (2013); Arte e pietà nella Chiesa tridentina (2014); Homo Europaeus (2015); Giuseppe Dossetti e le Officine bolognesi (2016).

[4] Per chi volesse approfondire le introduzioni di questi sette volumi, mi permetto di rimandare il lettore ad un nostro articolo presente in questo numero La crisi dell’uomo europeo nei ‘percorsi di ricerca’ di Paolo Prodi.

[5] Intervista con Goffredo Fofi: Tutti fate inchieste nessuno fa la rivoluzione, di Enrico Di Fabio, in questo numero.

[6] Franz Rosenzweig (1886 -1929) è stato un filosofo ebreo tedesco allievo di Heinrich Rickert e di Friedrich Meinecke che ha studiato e scritto su Hegel (Hegel e lo Stato) fino a quando, durante il primo conflitto bellico, maturò la convinzione di dedicarsi integralmente all’ebraismo scrivendo dal fronte La stella della redenzione, la sua opera più importante, frutto anche del suo rapporto con Hermann Cohen e con l’amico Eugen Rosenstock-Huessy. In seguito con Martin Buber collaborò alla traduzione dei primi della Bibbia. Il suo pensiero, incentrato sulla riscoperta anche in chiave filosofica delle categorie della creazione, rivelazione e redenzione così come vengono incarnate dall’ebraismo e dal cristianesimo, ha influenzato autori come Walter Benjamin, Emanuel Levinas, e in italia Italo Mancini e Massimo Cacciari.

[7] P. Prodi, Profezia vs utopia, op. cit, p. 9. Prodi si riferisce in particolare al passo in cui Rosenzweig definisce la ‘Ecclesia’ come religione che nasce per istituzionalizzare la profezia: “Nel mondo cristiano Stato e Chiesa si divisero fin dall’inizio. Nel mantenimento di questa separazione si venne compiendo, da allora, la storia de mondo cristiano” Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, Casale Monferrato, Marietti, 1985, pp. 366. Questo framemnto Prodi lo interpretava alla luce del passo di Paolo che spronava ogni cristiano a diventare un buon profeta: “Cercate dunque di vivere nell’amore, ma desiderate intensamente i doni dello Spirito, soprattutto quello di essere profeta”, prima lettera ai Corinti (14, 1-2).

[8] Riporto tra virgolette questo verbo perché mi è tornato in mente quando ho saputo della sua triste scomparsa. Credo che rappresenti al meglio il senso della sua curiosità di studioso e l’orizzonte sempre aperto della sua ricerca. In effetti con un amico non si con-dividono solo esperienze negative (Come quando mi scrisse allarmato del rischio di chiusura della Giunta Storica da lui presieduta) ma si allarga il proprio punto di vista: cosa c’è di più intrigante, appassionante e divertente?

[9] Occidente senza utopie, Bologna, il Mulino, 2016.

[10] Prima di lasciarvi alla lettura di questa lunga intervista è doveroso precisare che Paolo Prodi non l’ha potuta rivedere né tanto meno correggere, e nel riversarla da ‘nastro’ a pagina scritta è stato fatto un lavoro redazionale della cui resa ci assumiamo piena responsabilità.

[11] Luigi Gui (Padova, 26 settembre 1914 – Padova, 26 aprile 2010) è stato un politico e partigiano italiano. Membro dell’Assemblea costituente, fu esponente della Democrazia Cristiana, deputato, senatore e ministro della difesa, della sanità, dell’Istruzione e dell’interno è considerato uno dei padri della repubblica.

[12] La Lega democratica (1975-1987) viene costituita da uno sparuto gruppo di intellettuali e sindacalisti cattolici in seguito alla mobilitazione dei «cattolici per il «no»» contro l’abrogazione del divorzio. Animata dallo storico Pietro Scoppola, favorevole ad un impegno nel partito cattolico per rinnovare dall’interno la politica italiana, e dal sociologo Achille Ardigò, più propenso ad un lavoro di formazione politica rivolto alla società civile fuori dai partiti, riesce a stimolare l’area sinistra della Dc formando una nuova classe dirigente nello spirito di Maritain, Dossetti, Sturzo, De Gasperi e Moro.

[13] Nel suo Sacramento del potere, Paolo Prodi ricostruisce il ruolo fondamentale avuto dalla formula giuramento nella storia giuridica dell’Occidente “La storia del giuramento è dunque una storia che ha due versanti. Il primo è costituito dalla lotta perenne contro la sacralizzazione del potere. Il secondo riguarda invece il bisogno che ogni società ha di “patti”, di impegni, di promesse che non siano sorrette solo da motivazioni utilitaristiche, ma possano fare affidamento ad un comune terreno etico di riferimento, ad una istanza di garanzia, “esterna”, “terza” rispetto ai contraenti, riconosciuta da tutti come vincolante” recensione di Michele Nicoletti, rivista “il margine”, n. 2/1993 p. 16-20.

[14] Roberto Ruffilli (1937 – 1988), storico e politico italiano, allievo di Gianfranco Miglio e di Feliciano Benvenuti. Nel 1982 entra a far parte di un gruppo di consulenti al seguito del Segretario della Democrazia cristiana Ciriaco De Mita. L’anno successivo viene eletto nel collegio laziale al Senato nelle file del gruppo democratico cristiano […] e Capogruppo della Dc, alla Commissione parlamentare per le riforme istituzionali. Nel giugno del 1987 viene rieletto nelle liste del partito democristiano al Senato. […] Il 16 aprile 1988 viene ucciso nella sua abitazione a Forlì da una cellula della Brigate Rosse” [dal sito della “Fondazione Roberto Ruffilli”].

[15] L’Istituto storico italo-germanico è un istituto di ricerca nato nel 1973 nell’ambito dell’allora Istituto Trentino di Cultura, che ha per scopo la promozione degli studi storici dal tardo Medioevo all’età contemporanea, con particolare attenzione per i legami tra l’area tedesca e italiana” [fonte il sito ISIG] Paolo Prodi ha diretto l’istituto dalla sua fondazione fino al 1997.

[16] http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/04/01/la-doppia-scommessa-di-bologna-la-rossa.html

[17] Non tutti i Prodi vengono per nuocere. Recensione del libro: “Il tramonto della rivoluzione” di Ugo Boghetta sul sito di “Sinistrainrete”, caricato nel giugno 2016.

[18] P. Prodi, Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino Bologna, 2015.

[19] “L’Istituto di studi comunisti (meglio conosciuto come Scuola delle Frattocchie) è stata la scuola centrale del Partito comunista italiano. Fu fondata nell’ottobre del 1944 e trovò sede (dopo una brevissima permanenza a Roma) presso una villa donata al Partito nella frazione di Frattocchie. Denominata inizialmente “Scuola centrale quadri “Andrej Aleksandrovič Ždanov”, mutò nome nel 1950 in “Istituto Togliatti”, nel 1955 divenne “Istituto di studi comunisti”, e, dal gennaio 1973, “Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti”. “L’Istituto si inseriva nel sistema di formazione politica e ideologica a struttura piramidale previsto dal Partito che forniva – a diversi livelli – differenti ‘tipi’ di acculturazione”. In particolare l’Istituto serviva alla formazione dei quadri e dirigenti centrali e federali.” [Fonte Wikipedia].

[20] Intervista a Goffredo Fofi: Tutti fate inchieste nessuno fa la rivoluzione, di Enrico Di Fabio, in questo numero.

[21] P. Prodi, Giuseppe Dossetti e le officine bolognesi¸op. cit.

[22] Cfr. Il bivio del post- concilio. Ivan Ilich e l’esperienza di Cuernavaca, in Paolo Prodi, Giuseppe Dossetti e le officine bolognesi, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 93-115 .

[23] Ivan Illich (Vienna, 4 settembre 1926 – Brema, 2 dicembre 2002) è stato uno scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco. Personaggio di vasta cultura, viene citato spesso come teologo (definizione da lui stesso rigettata), poliglotta, per la sua vasta conoscenza di svariati idiomi, e storico. Viene però più spesso ricordato come libero pensatore, [1] capace di uscire da qualsiasi schema preconcetto e di anticipare riflessioni affini a quelle altermondiste. Estraneo a qualsiasi inquadramento precostituito, la sua visione è strettamente affine all’anarchismo cristiano. Vice rettore dell’Università di Puerto Rico e fondatore in Messico del Centro Intercultural de Documentación (CIDOC), ha focalizzato gran parte della sua attività in America Latina. Il suo essenziale interesse fu rivolto all’analisi critica delle forme istituzionali in cui si esprime la società contemporanea, nei più diversi settori (dalla scuola all’economia e alla medicina), ispirandosi a criteri di umanizzazione e convivialità, derivati anche dalla fede cristiana, così da poter essere riconosciuto come uno dei maggiori sociologi dei nostri tempi. [fonte: Wikipedia]

[24] Documentario della RAI incentrato sulle figure dei vescovi Helder Câmara e Eugenio Sales, poi trasmesso in televisione la notte di Natale del 1967: è stato recentemente riprodotto in DVD in omaggio a don Renzo Rossi, allora missionario nelle favelas di Salvador; P. Prodi, Dossetti…, op. cit. p, 207. V. anche: Nani sulle spalle di giganti. Guardare oltre in Toscana nello spazio e nel tempo Atti del seminario di studi San Gimignano, 6 dicembre 2014 a cura di Andrea Spini e Giuseppe Picone, p. 49.

[25] P. Prodi, Dossetti…, op. cit. pp. 93-107, pp. 205-233 e appendice.

[26] Vedi anche il capitolo V “Dalla profezia in utopia” in Paolo prodi Il tramonto della rivoluzione, pp. 57-70

[27] “L’opera di Rosmini viene condannata dalla Congregazione dell’indice mentre si spalancano le porte (anche la coincidenza cronologica è importante) alle visioni, con le apparizioni di Lourdes che saranno poi riprese nei secoli successivi a Fatima e altrove sino alla più recente MedjugorJe. […] Si tratta di non confondere il piano della profezia con quello delle apparizioni, alla trasformazione della denuncia profetica del male che domina il mondo in “segreti” la cui amministrazione spetta alla gerarchia ecclesiastica” [P. Prodi, Profezia vs Utopia, cit. p. 28]

[28] P. Prodi, Arte e pietà nella chiesa tridentina, op. cit. p. 40.

[29] “La cartolina nasce verso la fine del conflitto franco-prussiano del 1970. Ai ragazzi in partenza per il fronte venivano consegnati dei cartoncini stampati solo da un lato, per poter mandare i saluti a casa. Anche la guerra era ormai inquadrata in termini di massa. La prima e più grande diffusione di immagini industriali non appartiene al turismo o alla pubblicità, ma è lo strumento con cui i soldati comunicano con la famiglia. Milioni di piccole figure diffuse in tutta Europa, come prova di permanenza in vita” R. Falcinelli Critica portatile al visual design, Einaudi, Torino, 2014, p. 73.

[30] “L’amore per lo Stato-patria è stato la religione vera degli ultimi secoli: il dono della propria vita è stato visto come l’atto supremo di annullamento dell’individuo […]” Paolo Prodi, Il tramonto della rivoluzione, p. 78 e cfr. anche il § 10 ”Le religioni politiche del XX secolo” in  P. Prodi, Storia moderna o genesi della modernità, op. cit.. pp. 146-147.

[31] Paolo Prodi, Una storia della giustizia, Bologna Il Mulino, 2000.

[32] Considero il piano degli studi della facoltà di Scienze politiche di allora come il più adatto per la formazione storica.

Prodi, Storia moderna o genesi della modernità, p. 15.

[33] Luigi Mengoni (Villazzano, 25 agosto 1922 – 19 ottobre 2001) è stato un giurista italiano, considerato fra i padri fondatori del diritto del lavoro. Ricoprì la carica di Giudice della Corte costituzionale dal 1987 al 1996 [Wilipedia].

[34] Paolo Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna Il Mulino, 2009.

[35] Discorso e verità nella Grecia Antica, Donzelli, Roma 1996; Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2009; Il coraggio della verità, Feltrinelli, Milano, 2011.

[36] “mi sembra interessante analizzare, nelle sue condizioni e forme, il tipo di atto attraverso il quale il soggetto, dicendo la verità, si manifesta, e con questo voglio dire: sotto quale forma, all’interno del suo atto di dire il vero, l’individuo si costituisce ed è costituito attraverso gli altri come un soggetto che tiene un discorso di verità […]” M. Foucault, Le courage de la vérité, Gallimard, 2009, p. 4.

[37] “Il profeta è in una postura di mediazione. Il profeta per definizione non parla in nome proprio. Parla per un’altra voce, la sua bocca serva da intermediario a uva ce che parla da fuori. […] Svela il futuro nascosto agli uomini [..] ma non lo rivela senza essere allo stesso tempo oscuro [..] rimane qualcosa che deve essere interpretato. Ora precisamente la parresia, si oppone, parola per parola, a questi differenti caratteri di dire il vero […]. Il parresiasta parla in nome proprio. È importante che sia la sua opinione, il suo pensiero e convinzione ciò che formula. […] Il parresiasta non dice il futuro […] ma leva il velo su se stesso […] su qualche colpa, distrazione o dissipazione morale. E’ all’interno di questo gioco che il parresiasta gioca il suo ruolo” M. Foucaullt, Le courage de la vérité, op. cit, pp. 16-17. Mi permetto di rimandare il lettore ad un nostro articolo sul tema apparso in questa rivista La ‘Cassandra’ di C. Wolf e il ‘Diogene’ di M. Foucault: il dramma di dire il vero nell’epoca post-comunicativa, “Leussein”, 2010 vol. 3.

[38] “Non basta l’osservanza della legge, e non basta la profezia, ma è necessaria la loro sintesi contenuta nel messaggio evangelico “Fate agli altri quel che volete che essi facciano a voi: così comanda la legge di Mosè e così hanno insegnato i profeti” (Mt. 7, 12); “Tutta la legge di Mosè e tutto l’insegnamento dei profeti dipendono da questi due comandamenti (Mt 22,40; cfr anche Lc 16,16)” P. Prodi, Profezia vs Utopia, op. cit. p. 13.

[39] “Il problema che vedo come centrale e insoluto nelle nostre società migranti e multiculturali è se sia possibile mantenere il rapporto, il ritmo, tra il necessario respiro interno di una società, respiro che viene ucciso dalle regole (anche quelle che vengono formulate per difendere i nostri diritti e la nostra privacy) e la via delle istituzioni che hanno bisogno dell’oggettivazione del diritto positivo. Se questo respiro sia oggi recepito dalle nostre religioni monoteiste non sono in grado di dirlo: mi sembra che anch’esse percorrano un cammino parallelo, anche se diverso, in questa direzione.  Paradossalmente mi sembra […] che proprio dall’Islam provenga un richiamo all’Altro, a un ancoraggio metapolitico che la nostra società postcristiana ha perso e sta perdendo”, P. Prodi, Storia moderna o genesi della modernità, op. cit, p. 172.

[40] “Uno sguardo intorno: Islam, primavere arabe e terrorismo”. pp. 107-119, e Storia moderna o genesi della modernità, pp. 170-173.

[41] pp. 23 e segg.

[42] Amina Crisma collabora con la rivista “Inchiesta” http://www.inchiestaonline.it/ dove si può trovare una preziosa testimonianza del suo rapporto con Paolo Prodi http://www.inchiestaonline.it/editoriali/amina-crisma-in-ricordo-di-paolo-prodi-un-amico-e-un-interlocutore-di-cui-sentiremo-la-mancanza/

[43] Paolo Prodi, Il tramonto della rivoluzione, op. cit. p. 87.

[44] “Noi uomini d’occidente , distaccandoci dalla nostra tradizione, stiamo prendendo le distanze da una coscienza personale e collettiva come scelta tra il bene e il male, dai nostri sensi di colpa, di responsabilità, per entrare in una civiltà ispirata o dal computer o da Confucio o da entrambi, civiltà  in cui la “norma a una dimensione” fa coincidere l’essere collettivo con il dover essere e la religione viene ridotta a religione civica, una civiltà in cui le scelte quotidiane sono sempre meno affidate a un giudizio tra il bene e il male e sempre più ai sondaggi d’opinione o alle statistiche degli scienziati”, P. Prodi,  Storia moderna o genesi della modernità, op. cit, p. 172.

[45] Adriano Prosperi, storico e giornalista, anche lui allievo di Delio Cantimori, e membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, studiando la storia dei movimenti ereticali nell’Italia del Cinquecento si è occupato in particolare di storia dell’Inquisizione romana: Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (Torino, Einaudi, 1996) e Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana. XIV-XVIII secolo (Torino, Einaudi, 2013- 2016). Da noi interpellato per chiedere lumi su questa divergenza di vedute con Paolo Prodi, ci ha detto: “La nostra divergenza credo che in ultima analisi nascesse dalla sua profonda e radicata fede cattolica e dal suo vincolo forte di fedeltà con le autorità ecclesiastiche che si traduceva sul piano storiografico in una messa in ombra degli aspetti negativi della età della Controriforma (lui rifiutava anche il termine)”. Nello specifico della questione della condanna capitale nel periodo dell’Inquisizione, Prosperi rileva l’insanabile contraddizione di chi professandosi credente in un uomo-Dio possa decretare la morte di un altro uomo in Suo nome.

[46] Giuseppe Dossetti e le officine bolognesi (2016).



Direttore editoriale della rivista Leussein, si è laureato in giurisprudenza (La Sapienza) e in filosofia (Gregoriana), e ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia della politica (La Sapienza). E' stato ideatore, coordinatore ed editorialista della Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle finanze dal 2004 al 2006. Ha scritto diversi saggi e ha collaborato con diverse Università (Sapienza, Gregoriana, Lateranense, UPRA) e istituti di ricerca (Istituto italiano filosofici di Napoli - Scuola di Roma, Studi politici San Piov). I suoi percorsi di ricerca si snodano negli ambiti della filosofia ebraica, la teologia politica, gli studi postcoloniali e la teoria della comunicazione.


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