Esuli musicali: l’esilio nelle canzoni e nelle vite degli artisti

Sommario: Le storie di esilio che dalla seconda metà del ‘900 hanno riguardato musicisti e cantanti divenuti simbolo di lotta alle dittature e alle disuguaglianze, dal Sud America all’Africa. In Italia il tema dell’esilio in musica assume un’accezione tutta particolare, con le storie di Mina e Lucio Battisti, esuli dal proprio pubblico per buona parte della loro carriera.

Summary: Stories of exile that since the second half of the twentieth century have involved musicians and singers who have become the symbols of the fight against dictatorships and inequalities, from South America to Africa. In Italy, the theme of exile in music takes on a very special meaning, with the histories of Mina and Lucio Battisti exiled from their audiences for most of their careers.

“Siamo arrivati a Roma il 10 settembre del 1973, nell’ambito di una tournée in diversi Paesi dell’Europa. Una settimana prima avevamo suonato in Vietnam, ancora sotto i bombardamenti. Stavamo scoprendo il mondo, perché per la prima volta eravamo usciti dell’America Latina. Venivamo da un Paese, il Cile, che non aveva esperienze di tipo golpista. Il Cile è stato sempre, storicamente, un luogo di rifugio di diversi intellettuali, di diversi dirigenti dell’America Latina quando venivano a mancare le condizioni democratiche nei loro Paesi. Conoscevamo l’esilio degli altri: gli esuli della Repubblica spagnola, e tantissimi dal Venezuela, dal Brasile, dalla Colombia.” E’ così che, improvvisamente, Jorge Coulón Larrañaga, venticinquenne chitarrista degli Inti Illimani, vede trasformarsi sotto i suoi occhi una tournée trionfale in qualcosa di completamente diverso.

La sua band era capofila di un movimento culturale, la Nueva Canción Chilena, che dagli anni ’60 lavorava al recupero e alla riproposizione dei suoni del folklore latinoamericano, unendo alla produzione musicale un poderoso impegno politico e sociale.

L’indomani del loro arrivo in Italia il generale Augusto José Ramón Pinochet Ugarte assalta la Moneda, il palazzo presidenziale di Santiago del Cile nel quale è asserragliato il presidente Salvador Allende, democraticamente eletto tre anni prima alla guida della coalizione di sinistra di Unità Popolare.

Il presidente perderà la vita durante l’assalto, probabilmente suicidandosi, e Pinochet instaurerà uno dei regimi più duraturi e sanguinosi della storia del Sud America. La repressione nei confronti degli oppositori al regime sarà durissima: circa 130mila arresti. Persone che nella maggior parte dei casi saranno torturate, uccise o spariranno nel nulla, desaparecidos. Tra essi anche Victor Jara, il più importante cantautore cileno e animatore insieme agli Inti Illimani del movimento Nueva Canción Chilena.

“Per noi è stato uno strappo enorme – racconta ancora Jorge Coulón dalla sua casa di Santiago – non soltanto familiare e negli affetti, ma soprattutto per il nostro “orizzonte esperenziale”. Eravamo improvvisamente in esilio. Per me la parola esilio significa proprio strappo, significa incertezza.  Significa impotenza. Ho imparato sulla mia pelle che non hai mai il controllo della tua vita quanto credi. Ti manca la terra sotto i piedi.”

Le prime ore, i primi giorni, sono terribili nel ricordo indelebile di Jorge, anche perché il senatore del Pci Giancarlo Pajetta, che era stato in prigione 17 anni durante il fascismo, li riceve e offre loro una lucida lettura degli eventi in corso. “Ci disse che per le caratteristiche che aveva assunto il colpo di Stato le sue conseguenze non si sarebbero spente in breve tempo e che dovevamo prepararci, perché secondo lui questa situazione era comparabile con la dittatura di Franco in Spagna. Noi non volevamo crederci, naturalmente, ma lui con un atteggiamento rassicurante e con quella voce molto caratteristica ci disse che potevamo rimanere in Italia e che il partito ci avrebbero aiutato a trovare una sistemazione. Però ci raccomandò di continuare la nostra tournée, che prevedeva una settimana in Italia e poi Olanda, Francia, Germania e diversi altri Paesi dell’Europa occidentale.”

Comincia così l’esilio degli Inti Illimani in Italia, prima a Genzano e poi a Roma. E nonostante le speranze di poter tornare a breve in Cile, le previsioni di Pajetta si rivelarono presto azzeccate. “Le cabine telefoniche – racconta ancora Coulón – hanno occupato un posto molto importante nei primi mesi. Era complicato e anche molto costoso comunicare con le nostre famiglie in Cile, senza contare che noi eravamo perfettamente coscienti che le comunicazioni erano controllate dalla dittatura. Così abbiamo vissuto 15 anni in Italia, sono arrivato che avevo 25 anni e sono tornato in Cile che ne avevo 40. Non mi lamento, penso sempre che sarei stato comunque felice di vivere quegli anni in Italia, se fosse stata una libera scelta.Anni esaltanti per il fermento che c’era in Italia, e artisticamente e musicalmente molto soddisfacenti per noi, che però abbiamo vissuto con questa ossessione per la dittatura e la situazione in Cile. Ogni giorno venivamo a sapere della scomparsa o della morte di qualche amico, di qualche compagno. Questa era la barriera che c’era tra noi e una vita minimamente normale, perché nel frattempo sono nati i nostri figli, abbiamo fatto vita di quartiere, conosciuto tanta gente interessante.”

La politica per un esiliato diventa dunque una componente dilagante nella quotidianità. Gli Inti Illimani diventano un simbolo e combattono la dittatura di Pinochet come possono, con la loro musica e con l’enorme seguito che riescono a raccogliere. “Prima di partire, nei 3 anni di governo di Allende e di Unità Popolare – prosegue Jorge con i ricordi – eravamo molto impegnati anche politicamente, però la nostra vita aveva una componente di normalità, nel senso che nessuno era normalmente un militante 24 ore del giorno. Portavamo avanti l’impegno politico in una cornice di vita familiare: non occupava permanentemente la nostra esistenza. Improvvisamente tutto è cambiato: non dai più alla politica solo il senso della militanza, ma c’è anche il senso dell’urgenza. Un esiliato vive fisicamente in un posto ma la sua anima e i suoi sentimenti (Jorge usa le parole “animicamente e sentimentalmente” N.d.R.) sono in un altro posto. Sei in un luogo e contemporaneamente nel luogo dove manchi, sei dove abiti e dove hai messo le tue ossessioni.”

Dentro questa condizione c’è la musica, un linguaggio universale che più di altri può veicolare messaggi e raccontare epoche e movimenti culturali prima ancora che politici. Jorge non ama classificare il loro canzoniere tra la musica impegnata, ma la ritiene soprattutto il risultato di un fermento culturale che permea già una società nel momento in cui nasce. L’indicatore di una transizione, il riflesso di cambiamenti che dalla società provengono e ad essa tornano sotto forma di suoni e parole. “Noi aspiravamo e aspiriamo ancora a costruire un linguaggio più che a mobilitare le masse. Abbiamo sempre considerato la nostra musica un linguaggio, una maniera di relazionarsi con il mondo. I nostri Paesi, l’Italia e il Cile, hanno in comune ferite che non si sono mai cicatrizzate. E quando le ferite non si chiudono dall’interno verso l’esterno portano cancrene. Le ferite dell’America Latina sono antiche e profonde e vorremmo che la musica fosse il linguaggio di quella sanazione che però deve essere politica, nel senso più alto della parola. Oggi la musica è cambiata, conviviamo con una industria della musica che anche in America Latina è lì per fare affari, non per fare arte. Quello che non è cambiato è la radice profonda per la quale noi facciamo musica.”

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Tra i paesi che subiscono dittature repressive nel Sud America, certamente quella che produce il maggior numero di esuli tra i musicisti è il Brasile. Il colpo di stato militare del 31 marzo 1964 che destituì João Goulart instaurò un regime militare guidato dal maresciallo Humberto de Alencar Castelo Branco, che inaugurò la dittatura dei “Gorillas”, fondata sul nazionalismo e un aspro anticomunismo, una politica economica liberista e una crescente repressione di ogni forma di opposizione, nonostante le prime rassicurazioni.

Tra la fine del 1968 e l’inizio del 1969, dopo la sospensione del Parlamento, la fattuale abolizione dei diritti politici e delle garanzie personali con il famigerato AI-5 (Atto Istituzionale numero 5) preludio all’ascesa al potere del generale Emílio Garrastazu Médici, un gruppo di musicisti brasiliani lascia a più riprese il Brasile verso l’Europa.

La scintilla fu l’arresto e l’interrogatorio di Chico Buarque de Hollanda, che attraverso la sua musica si era proposto come uno dei più efficaci oppositori della dittatura. Dietro di lui era cresciuta una generazione di musicisti confluiti nel gruppo dei Tropicalisti, che annoverava anche Caetano Veloso e Gilberto Gil, anch’essi imprigionati per diversi mesi per “attività anti-governative” già nel 1968 e appena scarcerati invitati a lasciare il Paese alla volta di Londra.

Nello stesso periodo espatriarono anche Nara Leao verso la Francia ed Elza Soares, che arrivò in Italia insieme al compagno, il calciatore Manoel Francisco dos Santos, meglio noto come Garrincha, e tenne diverse serate con la sua caratteristica voce roca al Teatro Sistina di Roma.

Anche il chitarrista jazz Baden Powell si trasferì in Europa e ci rimase per una ventina d’anni tra la Francia – dove suonò con Stan Getz e Thelonious Monk – e la Germania.

Più breve, almeno nella prima fase, l’esilio italiano del chitarrista Toquinho, che fu chiamato per una serie di spettacoli inesistenti da Chico Buarque e restò solo sei mesi.

Tutti artisti, intellettuali e musicisti molto popolari nonostante la giovane età e una censura sempre più asfissiante, che la propaganda del regime dei generali additò come traditori, e facendo seguito ad uno dei loro motti, “Brasile, amalo o lascialo”, espulse dalla vita politica brasiliana.

Pieno di significati personali e politici, e gravido di produzioni, fu l’esilio di Chico Buarque de Hollanda, che si stabilì con la moglie Marieta a Roma, dove nacque anche la loro prima figlia. Buarque aveva già vissuto a Roma da bambino, insieme al padre Sérgio, insegnante di Storia economica del Brasile che alla fine degli anni ’50 rimase per due anni come professore associato presso il Dipartimento di Studi Brasiliani dell’Università la Sapienza di Roma.

Conosceva dunque la città, aveva delle relazioni, e soprattutto conosceva la musica italiana e l’ambiente discografico. Questo gli permetterà di non interrompere la sua produzione.

“E’ stato un momento difficilissimo, perché volevo far di Roma la mia vera patria – dirà qualche decennio dopo in uno dei suoi tanti ritorni a Roma – ma allo stesso tempo pensavo con nostalgia al Brasile.”

Portò in Italia La banda, una delle sue canzoni più popolari proprio perché incisa in quegli anni da Mina, e incise un disco completamente in italiano, Chico Buarque na Itália, suo quarto album scritto insieme a Sergio Bardotti e con la collaborazione di Antonio Amurri, Giorgio Calabrese e Enzo Jannacci. In particolare la sua amicizia con Sergio Bardotti, Sergio Endrigo e Lucio Dalla gli consentì di far conoscere al pubblico italiano la musica brasiliana e il bossa nova.

In realtà i dischi italiani di Buarque sono due, perché nel 1970 esce Per un pugno di Samba, scritto sempre insieme a Bardotti e arrangiato da Ennio Morricone, con due giovanissime cantanti di belle speranze ai cori: Mia Martini e Loredana Bertè.

Non solo: in quegli anni Buarque legherà in particolare con Lucio Dalla, e anni dopo inciderà una versione in portoghese di 4 marzo 1943. Tracce nascoste di questa amicizia finiranno dieci anni dopo ne L’anno che verrà: la lettera che Dalla immagina di scrivere ad un amico e che costituisce il testo di questo capolavoro della musica italiana è indirizzata proprio a Chico Buarque de Hollanda.

Il cantautore torna in patria nel 1970 con l’idea di continuare la sua attività musicale e attraverso essa opporsi dall’interno al regime militare, diventando un simbolo della resistenza. Lo fa inventando un alter ego, Julinho de Adelaide, pseudonimo attraverso il quale riuscirà a incidere dischi che se fossero usciti con il suo vero nome sarebbero stati banditi, come accadde con Apesar de Você (Nonostante tu) brano che inizialmente aggira la censura e diventa l’inno del movimento democratico prima di essere ritirato dal mercato.

Con grande talento e ironia corrosiva, Buarque farà letteralmente vivere Julinho de Adelaide, riuscendo a procurarsi un documento con questo nome e a fargli rilasciare anche qualche intervista. Dietro di lui produrrà Calice, canzone del 1973 contro la dittatura. Il suono Calice si avvicina molto a “Cale-se” che, tradotto, vuol dire “stai zitto”.

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Haydée Mercedes Sosa nasce in Argentina, a San Miguel de Tucumán, nel 1935 in una famiglia dalle umili origini. La modesta dimora della famiglia Sosa sorge a pochi passi dal parco pubblico 9 de Julio, luogo della sua infanzia e delle sue merende a base di vinagrillo, bacca che cresce su alcuni tipi di palme e che sovente era il suo unico pasto quotidiano. “Un passaggio fondamentale, importante per la formazione della sua coscienza sociale e politica avviene quando Mercedes ha solo 7 anni e decide di fare una sorpresa a papà Ernesto, soprannominato Ducho, andandolo a trovare nello stabilimento di trasformazione della canna da zucchero dove lavora” racconta Sabatino Alfonso Annecchiarico, scrittore, giornalista e Coordinatore scientifico della Rete di Scienziati Argentini in Italia (RCAI), che ha vissuto in prima persona, da spettatore, molti momenti importanti della vita di Mercedes Sosa e che è stato animatore, insieme ai musicisti Claudio Farinone e Raffaele Casarano del progetto Todo Mercedes, un disco con riletture strumentali del suo vasto repertorio e uno spettacolo teatrale biografico e celebrativo.

“Per lei – prosegue Annecchiarico – vederlo faticare nella caldaia che alimentava i forni, sotto il piano della strada e in un locale che superava abitualmente la temperatura di 50 gradi, per uno stipendio con il quale non riusciva a sfamare la famiglia per l’intera settimana, fu uno shock.” 

Papà Ernesto è un convinto peronista e le prime apparizioni in pubblico di sua figlia – che lui stesso registrò all’anagrafe come Mercedes, contro il volere di sua moglie che avrebbe preferito chiamarla Marta e così la chiamerà per tutta la vita – avverranno nelle feste di piazza, dove la bambina si esibisce in inni politici.

A 15 anni Mercedes approfitta dell’assenza dei genitori, impegnati in una marcia peronista a Buenos Aires, per partecipare ad un concorso canoro organizzato da Radio LV12. Papà Ernesto sarebbe contrario, perché ritiene poco decoroso per una ragazzina cantare alla radio, ma si ricrederà quando ascolterà la registrazione della canzone con la quale Mercedes vincerà il concorso.

Parte così la carriera della “cantora popular,” presto ribattezzata anche La Negra, che in pochi anni divenne la voce più rappresentativa dell’Argentina e di tutta l’America Latina. 

I suoi dischi incitano alla lotta per superare ingiustizie e disuguaglianze e i suoi concerti, nei quali canta sull’orlo del proscenio guardando negli occhi il pubblico e incitandolo ad unirsi al coro, trovano le prime censure già nel 75, prima dell’instaurazione della dittatura militare. Sono gli anni in cui l’Argentina è preda delle scorribande degli squadroni della morte, in particolare quello tragicamente conosciuto come la Triple A, Alleanza Anticomunista Argentina.

Una sera, durante un concerto al Teatro Argentino de La Plata si presentarono all’ingresso decine di soldati in assetto di guerra, che lei cercò di fermare chiedendo di farle ultimare il concerto. La arresteranno insieme a tutti i musicisti e a tutti gli spettatori presenti, circa 300 persone, con l’accusa di sostegno alle attività rivoluzionarie. La vicenda segnerà profondamente la vita di Mercedes, fino a spingerla ad abbandonare l’Argentina nel 1979 per trovare ospitalità a Parigi presso José e Jacqueline Pons, e raggiungendo gli amici Astor Piazzolla e Atahualpa Yupanqui. 

Saranno anni di successi e di profonda tristezza per Mercedes Sosa: “Mette da parte il suo modo di coinvolgere il pubblico nei concerti e finché sarà in esilio in Europa – racconta ancora Annecchiarico – canterà sempre con gli occhi bassi, motivando la scelta con la tristezza di non poter più guardare negli occhi il suo pubblico.”

Il suo ritorno in Patria, nel 1982, anticiperà di pochi mesi la fine della dittatura e sarà segnato da tredici recital al Teatro dell’Opera di Buenos Aires, accompagnata dai musicisti León Gieco e Charly García. Ad aprire tutti gli spettacoli il brano Todavía cantamos, e a chiuderli un altro suo brano diventato un classico, Todo Cambia, brano che implicitamente rispondeva alle maldicenze messe in circolazione sul suo conto dal regime in un ultimo colpo di coda. “La accusavano di non essere più la stessa, di essere stata contaminata dalla vita europea – conclude Sabatino Alfonso Annecchiarico – e per tutta risposta La Negra esibisce la sua nuova saggezza, il suo modo diverso di vedere le cose con il quale spera di contagiare il popolo argentino alla vigilia del ritorno alla democrazia: se tutto cambia nella vita perché non posso cambiare anche io?”

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Nel continente africano emergono due storie di esilio per condizioni, tempi e motivazioni politiche estremamente divergenti.

La figura di Miriam Makeba, ad esempio, è emersa sin dagli anni ’60 come contraltare di quella di Nelson Mandela, seppur entrambi impegnati sul fronte della lotta all’apartheid in Sudafrica. Attiva in alcuni gruppi vocali impegnati a rivisitare la musica tradizionale sin dal 1952, Miriam appare nel documentario anti-apartheid Come Back Africa, un pesante atto d’accusa e di denuncia delle condizioni di vita delle popolazioni non bianche nel suo Paese.

E’ il 1960 e il film partecipa al Festival di Venezia. Viene invitato tutto il cast e lei è il volto di punta. Accetta l’invito e lascia il Sudafrica nonostante le pressioni del governo per impedirglielo. Lascia anche sua figlia, la piccola Bongi, affidata alla nonna per quello che deve essere un breve viaggio e che invece la vedrà esule per 30 anni. In sua assenza, infatti, le viene revocata la cittadinanza e vengono banditi tutti i suoi dischi. Nel 1963 viene invitata a portare la propria testimonianza al comitato contro l’apartheid delle Nazioni Unite. Il suo intervento colpirà l’opinione pubblica mondiale, e alcuni passaggi resteranno nella memoria: “Io vi chiedo, e chiedo a tutti i leader del mondo: agireste diversamente, restereste in silenzio senza fare nulla, se foste al nostro posto? Non vi ribellereste se non aveste nessun diritto nel vostro stesso Paese, perché il colore della vostra pelle è diverso da quello di coloro che la governano? O se foste puniti anche solo quando chiedete l’uguaglianza? Lancio un appello a voi e, attraverso di voi, a tutti i Paesi del mondo perché facciate tutto il possibile per evitare la tragedia che si sta avvicinando. Io mi appello a voi affinché salviate la vita dei nostri dirigenti, perché escano dalle prigioni coloro che non ci sarebbero mai dovuti entrare.”

Vivrà tra Europa e Stati Uniti, raccogliendo un successo artistico sempre crescente offuscato dall’impossibilità di tornare in Sudafrica, ai suoi affetti. Il governo sudafricano le negò il visto anche quando i due suoi zii furono uccisi nel massacro di Sharpeville, o pochi mesi dopo quando sua madre morì e a lei fu impedito di partecipare ai funerali. Nonostante le frequentazioni con il jet set internazionale e la sua amicizia con Harry Belafonte, la battaglia contro l’Apartheid prevarrà sulla carriera e nel 1968 lascerà gli Stati Uniti per trasferirsi in Guinea, da dove continuerà i suoi incontri e le sue battaglie fino al 1990, quando Nelson Mandela la convincerà a tornare in Sudafrica.

Qui continuerà il suo impegno per migliorare le condizioni di vita delle donne del Sudafrica, una sorta di prosecuzione di una sua iniziativa partita negli anni ’60, quando invitò le donne di colore ad essere fiere dei propri capelli e a non imitare le donne bianche lisciandoli. Una campagna lanciata con lo slogan “black is beautiful”e che rimarrà nell’iconografia di quegli anni come “afrolook”. Il suo legame con l’Italia sarà sempre molto significativo, improntato su una crescente popolarità culminata con la sua partecipazione al Festival di Sanremo del 1990 con la canzone Give Me a Reason, versione inglese di Bisognerebbe non pensare che a te, cantata da Caterina Caselli, alla quale era abbinata. Anche l’epilogo della sua incredibile vita avrà come teatro il nostro Paese: morirà per un malore improvviso a margine di un concerto contro la criminalità organizzata a Castel Volturno nel novembre del 2008.

Di tutt’altra matrice le motivazioni che spingono Hadj Brahim Khaled a lasciare la sua Algeria per vivere in esilio a Parigi. Il suo nome e la sua musica diventano molto celebri nel suo Paese negli anni ’80, fino a portarlo ad essere considerato il portabandiera del Raï, un genere di musica araba molto contaminato con i suoni spagnoli e francesi, e dai testi molto libertini.

Per anni ha suonato la sua musica nei luoghi turistici della costa, subendo tuttavia l’ostracismo delle radio e delle tv algerine, a causa dei suoi testi troppo audaci specie su temi come la liberazione delle donne dalle limitazioni delle leggi islamiche.

Il governo algerino improvvisamente decide di valorizzare il festival della musica Raï che si teneva in forma semiclandestina a Orano, la città natale di Khaled, e un’edizione dei primi anni ’90 avrà una vasta eco in tutto il Magreb. I musicisti Raï assurgeranno al rango di rappresentanti della nuova Algeria, quella moderna e più aperta alle contaminazioni musicali e culturali con l’Europa.

L’eco di questo successo giunge anche alle orecchie dei fondamentalisti islamici, che in quegli anni hanno messo nel mirino magistrati, politici e intellettuali, e che guardano con preoccupazione alla crescente popolarità di questi cantanti, che parlano apertamente di amore libero e di ricerca di modelli di vita alternativi a quelli della tradizione. Saranno destinatari di una fatwā, una condanna a morte, sia Cheb Khaled che Cheb Hasni, 26enne ‘principe del Raï‘, che sarà assassinato nel 1994, cinque giorni dopo il rapimento di un altro musicista, Lounes Matoub, il più popolare cantante della Cabilia, la regione di etnia berbera in quegli anni in prima linea nella resistenza all’integralismo.

Khaled “il giovane” vive tutt’ora a Parigi ma gira il mondo con la sua musica, raccogliendo successi e testimoniando la sua resistenza all’integralismo. Tra le sue incisioni più celebri c’è Aïcha, un brano con testo per metà in francese e metà in arabo che in perfetto stile Raïracconta di un uomo che ferma in strada una ragazza e le dichiara il suo amore, promettendole tutte le ricchezze del mondo, persino le più difficili da procurare come i raggi del sole, in cambio della sua devozione. La ragazza lo respinge rifiutando questa prigione dorata con parole che cozzano soavemente con le letture più ortodosse delle leggi coraniche: “Conserva i tuoi tesori/Voglio più di tutto questo/I lingotti sono lingotti, anche se d’oro/Voglio gli stessi tuoi diritti/E rispetto per ogni giorno/Non voglio altro che amore.”

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Ampliando in senso lato il concetto di esilio, possono essere riconducibili ad una sorta di distacco volontario dal pubblico e dal successo le scelte quasi contemporanee che negli anni ’70 allontanarono dalle scene e dalla vita pubblica i due artisti più in vista della musica italiana del periodo: Mina e Lucio Battisti.

Nell’estate del 1978 Mina è impegnata in una lunga serie di concerti in programma al noto locale Bussoladomani di Marina di Pietrasanta che rappresentano il culmine dell’estate in Versilia, all’epoca centro della mondanità estiva italiana. Manca dalla tv, dove è stata per anni la regina degli show televisivi del sabato sera, dal 1974, ma è un aspetto che non allarma il pubblico. In realtà il video di una sua canzone, Ancora ancora ancora, dopo aver subìto un leggero ritocco da parte della censura, è la sigla finale del programma Mille e una luce, in onda proprio quell’estate. La sua popolarità non risente affatto dell’assenza dalla tv e i concerti fanno registrare il tutto esaurito.

Tuttavia il programma si fermerà dopo 11 dei 15 concerti previsti e quello della sera del 23 agosto 1978 è a tutti gli effetti la sua ultima apparizione in pubblico. Fu una polmonite a fermarla, niente di grave e che non potesse guarire agevolmente con qualche settimana di cura. Nondimeno la convalescenza fu un momento di grande riflessione per Mina, su tutta una serie di eventi che avevano investito negli ultimi anni la sua carriera e la sua vita personale.

Tutto era cominciato nel 1963, alla nascita del suo primogenito Massimiliano, concepito con Corrado Pani, all’epoca ancora sposato con l’attrice Renata Monteduro. Per l’Italia bacchettona di quegli anni Mina è una peccatrice e sarà messa alla gogna dalla stampa e allontanata dalla tv pubblica. Tuttavia il pubblico resta dalla sua parte e le consuete serate organizzate durante l’estate saranno un bagno di folla e un caloroso successo. La sua supremazia nella hit parade non sarà mai in discussione, tanto che anche l’ostracismo della tv di Stato avrà durata breve. Proprio in occasione del suo ritorno alla conduzione di Studio 1, nel 1965, in un incidente stradale muore a 22 anni il fratello Alfredo, anch’egli musicista solista con lo pseudonimo Geronimo e musicista della band I Solitari che aveva accompagnato Mina nei primi anni di carriera.

Nel frattempo la storia con Corrado Pani si era esaurita e Mina visse un lungo sodalizio professionale e privato con Augusto Martelli, prima di incontrare e sposare, nel 1970, Virgilio Crocco, giornalista de Il Messaggero, inviato di cronaca nera.

Tuttavia quando, nel 1971, nacque la secondogenita Benedetta i due si erano già separati. Due anni dopo Crocco muore in circostanze misteriose nel Wisconsin, a seguito delle ferite riportate in un incidente stradale dalla dinamica mai chiarita completamente. Era impegnato in alcune inchieste sulla mafia italo-americana e aveva scritto a lungo delle vicende legate alla Banda della Magliana. La metà degli anni 70, infine, rappresentano per la carriera di Mina l’ultima conduzione televisiva e un clamoroso caso di censura per il brano L’importante è finire, scritto per lei da Cristiano Malgioglio, e bandito dalla tv e dalla radio pubblica per il suo testo troppo esplicito.

E’ dunque con questo pesante fardello di avvenimenti che Mina si trova a trascorrere qualche mese di allontanamento forzato dalle scene. Lo fa a Lugano, insieme al cardiochirurgo Eugenio Quaini, concittadino che conosce da sempre e con il quale ha iniziato proprio nel 1978 una relazione che risulterà essere quella definitiva, coronata nel gennaio 2006 con il matrimonio.

Questa nuova tranquillità familiare porta Mina a diradare progressivamente gli impegni, fino a maturare la scelta di un vero e proprio esilio dal pubblico, intervallato solamente da frequenti uscite discografiche sempre accolte con successi di vendite e di critica.

Completamente afferente alla sfera caratteriale la scelta di Lucio Battisti, che dalla metà degli anni ’70 scompare completate dalle scene pur continuando a produrre dischi con una certa regolarità.

Per una personalità schiva e timida come quella di Battisti, il crescente successo rappresenta una distrazione pericolosa per la sua arte. La componente promozionale e pubblica del suo lavoro era ormai diventata un fardello molto pesante, che secondo lo stesso Battisti necessitava di un supplemento di coraggio che, come Don Abbondio insegna, non è possibile trovare se se ne è caratterialmente sprovvisti. E’ dunque la componente pubblica del successo a spaventare Battisti, non certo il rapporto con gli ammiratori: interviste, concerti, apparizioni televisive, servizi fotografici. Tutte situazioni che formavano un fastidioso orpello che ingombrava la sua attività principale: lo studio ossessivo della musica e un maniacale lavoro di composizione che monopolizzano gran parte delle sue giornate.

“Nelle rare occasioni in cui ha parlato di questo aspetto della sua personalità – racconta Amalia Mancini, giornalista e critica musicale che ha lungamente studiato le scelte battistiane nei volumi “Lucio Battisti lenigma dellesilio” e nel successivo “Emozioni private. Lucio Battisti. Una biografia psicologica” – ha sempre sottolineato che la sua non era un’avversione o un timore nei confronti del pubblico e dunque delle esibizioni dal vivo. Il suo era un profondo convincimento che l’arte di un musicista si esprimesse con le sue incisioni, frutto di lunghe ore di studio. Dunque le serate, i concerti e le tournée le viveva come una perdita di tempo. A rafforzare la sua tendenza all’isolamento anche la sua personalità, al contempo spigolosa e fragile come un cristallo”.

Battisti si isola nella sua villa nella campagna brianzola, compone e studia musica dalle prime ore del mattino al pomeriggio, e nel tempo libero approfondisce i suo studi di matematica, filosofia e soprattutto psicanalisi.

Negli ultimi anni della sua vita progetta addirittura il ritorno nella natia Poggio Bustone, e individua un terreno sul quale fa progettare una villa per proseguire a comporre e vivere in isolamento.

Sua moglie non contrasta questa sua tendenza, ma anzi la asseconda e la preserva rigidamente. A questo rispetto per la scelta personale di Battisti si deve con molta probabilità anche la maniacale gestione dei diritti della sua corposa produzione da parte dei suoi eredi dopo la sua morte, avvenuta nel 2002 a causa di un linfoma. Ne è estrema conseguenza il notevole ritardo con il quale tutte le canzoni di battisti arrivano sulle piattaforme di streaming, oggi il più importante canale di diffusione della musica, avvenuto solo nell’estate del 2020.

Il tema dell’esilio nella musica italiana trova infine una insospettabile collocazione mainstream nella kermesse canora nazional popolare per antonomasia. Nel 1952 Nilla Pizzi vince la seconda edizione del Festival della canzone italiana di Sanremo con un brano che ai più sembrerà una struggente professione d’amore e di mancanza di una donna al suo amato lontano.

E’ Vola colomba, un brano musicale composto da Bixio Cherubini e da Carlo Concina, e basta porre una dose supplementare di attenzione per notare una prima stranezza: la canzone è dedicata ad una amata, dunque a cantare dovrebbe essere un uomo.

Tre indizi, successivamente, ci fanno giungere alla conclusione che non sia una donna l’oggetto della canzone, ma una città. E’ a Trieste, infatti, che ci si può inginocchiare a San Giusto, la principale cattedrale della città, e ai cantieri navali della città fa riferimento il verso ”lasciavamo il cantiere” così come l’espressione “il mio vecio” è una forma dialettale triestina per indicare il padre.

Dunque il protagonista della canzone è un esule triestino, che ha dovuto lasciare la città dopo il Trattato di Parigi del 1947, che rese Trieste città-stato indipendente sotto la protezione delle Nazioni Unite con il nome di “Territorio libero di Trieste” (TLT). La regione venne divisa in due: la Zona A che includeva la città di Trieste, amministrata dagli Angloamericani e la Zona B che includeva la costa istriana settentrionale, amministrata dall’esercito jugoslavo. Nel 1952 il tema era al centro del dibattito politico italiano, e la canzone diventò in qualche modo un inno nelle numerose manifestazioni per il ritorno di Trieste all’Italia. Accadde due anni dopo, con il Memorandum di Londra del 1954.

Bibliografia

– Inti Illimani, storia e mito – Eduardo Carrasco e Francesco Comina – ed Il Margine – 2010

– Viva Italia. 30 años en vivo – Inti Illimani – Arcana – 2003

– Makeba. My Story. Miriam Makeba, James Hall – Editore: Bloomsbury Publishing PLC Anno: 1988

– Il festival di Sanremo. 70 anni di storie, canzoni, cantanti e serate – Eddy Anselmi – De Agostini, 2020

– Bianca, rosa e nera. Cent’anni di storia d’Italia nella cronaca popolare – Eddy Anselmi – Mondadori Education, 2016

– Lucio Battisti: l’enigma dell’esilio – Amalia Mancini – Pellegrini – 1999

– Emozioni private. Lucio Battisti, una biografia psicologica – Amalia Mancini – Arcana – 2019




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