Il nuovo numero : “La polis in crisi. Cittadini, demagoghi, intellettuali, net-attivisti”

‘La polis in crisi’ dice qualcosa di più e di diverso da ‘crisi della politica’? Noi pensiamo di sì, soprattutto se si riesce a mettere a fuoco un aspetto che era caratterizzante la polis democratica e che si è perduto nelle democrazie di oggi: la partecipazione attiva e diretta dei suoi cittadini. La vita politica della democrazia di allora, per poter funzionare, doveva fondarsi su un tessuto sociale compatto, sull’affidabilità della parola data e su chiari valori di riferimento condivisi da tutti. Nel momento in cui si minava questo tipo di vincolo aggregativo, l’esito non poteva che essere la diffidenza reciproca, la paura e infine l’isolamento. Questo è quello che accadde agli Ateniesi dopo il colpo di stato antidemocratico del 411 a.C., che ebbe successo grazie sia all’abilità con cui i congiurati, riuniti in società segrete note come “eterie”, riuscirono a mettere in difficoltà i meccanismi istituzionali della polis democratica, sia ad una sistematica opera di destabilizzazione della collettività attraverso assassinii politici, terrorismo e propaganda. Come mette in luce Cinzia Bearzot nel suo contributo (La crisi della democrazia nell’Atene di fine V secolo: dalla disgregazione della comunità civica al “ritorno al sociale”), i democratici reagirono attraverso la ricostruzione di un tessuto sociale coeso e ideologicamente compatto, in grado di sostenere il singolo nelle sue convinzioni personali attraverso il supporto della società, insistendo sugli aspetti “comunicativi” come l’esposizione di iscrizioni con documenti di interesse pubblico, la propaganda basata sulla riappropriazione di slogan, la realizzazione di nuovi monumenti o la valorizzazione di quelli già esistenti, nonché la promozione di riti collettivi.

Non far sentire il cittadino solo, questo era il senso implicito e condiviso della polis democratica, e ‘solitudine’ è per certi versi il termine che si nasconde dietro le parole che compongono il titolo di questo numero, quello che ne potrebbe delimitare il campo semantico indirizzandone il senso. La domanda, infatti, torna ad essere: quanto è sovrapponibile il cittadino ateniese con quello di oggi? Le differenze strutturali e di contesto consistono, come è noto, nella limitata estensione geografica della polis, nel ristretto numero di cittadini attivi e in un’economia fondamentalmente schiavistica. Insomma la democrazia dell’epoca non era per tutti. Ma la molteplicità dei legami sociali, etici e religiosi che ne costituivano la trama essenziale si è conservata sino ad oggi? Se, come sosteneva Weber, l’unicità dell’Occidente, è consistita nel tentare sempre l’impossibile, si è tentato realmente di estendere a tutti i benefici della democrazia? E se sì, in che ‘modo’ e a quale prezzo questo è avvenuto?

Gli studiosi Laclau e Mouffe sostengono che il capitalismo negli anni ’80 del secolo scorso ebbe la forza di ‘democratizzare’ ogni individuo, liberandolo dalle maglie delle vecchie ideologie tradizionali, ma al costo salato di abbandonarlo di fatto a se stesso non fornendogli alcuna nuova ideologia in cambio. Il punto è, come ricostruisce Fabio Frosini nel suo articolo (L’egemonia dentro l’economia o l’economia fuori dell’egemonia? Note per una rilettura di Hegemony and Socialist Strategy di E. Laclau e C. Mouffe), che il capitalismo rese “visibile” a ciascuno la propria condizione di radicale storicità e contingenza, spingendolo a considerare la propria “identità” come qualcosa di mobile e negoziabile  Nel vuoto ideologico, ogni azione che compie il soggetto lo allontana dagli altri all’infinito e a una velocità siderale. Queste sono solo le premesse di un cambiamento che si registrerà su uno strato sempre più profondo della convivenza: al cittadino post-ideologico subentra il cittadino-consumatore.

In uno splendido isolamento, sferzato dal vento liberista, l’individuo del nuovo millennio ha smarrito le forme di sicurezza, socialità e cooperazione dei decenni precedenti. Sono tutti cambiamenti che lasciano un segno anche al livello lessicale, come ricostruisce Francesco Marchianò, con cui abbiamo curato questo numero, nel suo contributo (Neoliberismo, individualismo, utilitarismo ed effetti sul lessico politico). Avanza così l’imprenditore di se stesso e arretra il socio sodale delle società di persone. I partiti lasciano il posto ai leader, i militanti che contano si ritrovano contati come follower, e i programmi vengono sostituiti con pochi slogan e tanti tweets.

Chi da tempo denuncia la fine della politica e la scomparsa dei grandi politici è Goffredo Fofi: “La politica oggi è finita! A quei tempi […] avevi la possibilità di andare da Pertini o da qualche comunista o sindacalista, c’era il dialogo con le istituzioni perché c’era la Costituzione, perché c’era la Repubblica, perché c’erano i partiti della sinistra, perché c’erano realtà forti.”. A suo dire, ormai, non ci sono più neanche le grandi manifestazioni politiche che provano a cambiare qualcosa: “L’ultima è stata quella di Genova del 2001”. Il paradosso è che alla fine è proprio la comodità con cui si fa cultura e si fruisce di essa che spinge il cittadino a dis-occuparsi della sua polis: “Perché la cultura oggi, a mio avviso, è uno degli strumenti fondamentali per “fottere” il popolo da parte del potere. Serve a riempirti la giornata di chiacchiere, di iniziative, di film, di letture, eccetera e a non fare quell’altra cosa fondamentale che è occuparci della Polis” [“Tutti fate inchieste, nessuno fa la rivoluzione” intervista a Goffredo Fofi di Enrico Di Fabio].

La denuncia di Fofi viene ripresa e rilanciata da Paolo Prodi, con un uno sguardo sull’intellettuale: “è diventato disorganico per forza. Non ha più alcuna funzione nella costruzione di una ideologia […]. Un po’ è la storia anche della mia generazione. Devo dire che in questi cinquant’anni le abbiamo perdute tutte”. [“I miei fallimenti politici. L’intellettuale e il senso della profezia” Intervista con Paolo Prodi]. Certo, egli ammette che in America latina gli intellettuali, i teologi, i preti e i monsignori vicini ai più poveri e attenti alla questione ecologica stanno invece ricevendo finalmente, grazie al nuovo papa, un riconoscimento istituzionale. Tuttavia si tratta, appunto dell’America latina, non del ricco Occidente, non certo dell’Europa. Qui la crisi, come dicevamo, ha intaccato il suo paradigma politico, la polis, fino dalle sue fondamenta, generando intorno al cittadino una solitudine artificiosa, contraria alla sua natura di animale sociale e alla sua storia (tutta europea) che si è snodata intorno alle conquiste di diritti fondamentali dell’uomo. All’orizzonte Paolo Prodi intravede, invece, una svolta antropologica, un lento quanto inconsapevole inoculamento nel nostro DNA di frammenti di un altro codice genetico culturale, quello orientale incentrato su “l’uomo cellula in un cosmo che lo comprende e fissa nel ruolo (neoconfucianesimo, buddista o taoista che sia)”. Lo storico di Scandiano non propone, però, una difesa a oltranza e identitaria delle radici culturali d’Europa, né tanto meno un antieuropeismo di maniera. Piuttosto, egli invita a comprendere fino in fondo la lezione weberiana su ciò che ha reso unico l’Occidente (La crisi dell’uomo europeo nei Percorsi di ricerca di Paolo Prodi, di Gianluca Sacco).

Se la democrazia è un modello politico che ha reso unico l’Occidente, altrettanto esemplare è stato il modo con cui, riprendendo il discorso dall’inizio, gli Ateniesi riuscirono a tornare alla vita democratica dopo il colpo di Stato del 411. Essi usarono il potere della comunicazione per valorizzare i legami sociali contro la stessa demagogia. Da questo punto di vista, il militante della rete, il cosiddetto net-attivista, seppur solo davanti allo schermo di un computer, prova comunque a sfruttare le potenzialità dal basso offerte dalle nuove piattaforme digitali per aiutare a riconnettere i cittadini con la politica e le istituzioni, come evidenzia il saggio di Antonio Tursi (Il net-attivismo e la ridefinizione della democrazia). Queste strade conservano tutte le incognite del nuovo, con i rischi insiti nelle procedure decisionali, negli slogan più demagogici e populisti, nella manipolazione dei mezzi e dei dati, ma hanno il merito di pensare un nuovo modo di mettere in relazione i cittadini in base ai loro problemi e quindi di inventare inediti spazi politici.

Nella sezione ‘Approfondimenti’, l’articolo di Daniele Lorusso interroga la grande tradizione della letteratura italiana per comprendere il declino politico, culturale e morale del nostro paese (L’Italia e i suoi dolori. Su “La Famiglia Manzoni” di Natalia Ginzburg e “A Futura Memoria” di Leonardo Sciascia). L’articolo di Alessandro Nardis (Stratificazioni semantiche nel cinema americano classico), invece, ci fa riscoprire alcune prassi tipiche della settima arte enfatizzando soprattutto l’aspetto formale e aristotelico rispetto a quello produttivo, confortato anche dal contributo di una grande docente di cinema della prima metà del Novecento, Frances Taylor Patterson, di cui pubblichiamo per la prima volta in italiano nella sezione ‘Inediti e rari’ alcune parti di uno dei suoi libri più importanti, Cinema Craftsmanship ̶  A Book for Photoplaywrights.

Prima di lasciarci consentiteci, cari lettori, di nominare gli illustri studiosi che a vario titolo hanno collaborato con Leussein e che sono purtroppo scomparsi durante il lungo arco di tempo di gestazione di questo fascicolo: Paolo Prodi (dicembre 2016), che ha ispirato la stesura di questo numero concedendoci una generosa e coraggiosa intervista quando stava già molto male; Tullio De Mauro (gennaio 2017) le cui sollecitazioni registrate nell’intervista rilasciateci sul Teatro della democrazia, stanno guidando la creazione del prossimo numero (Per una nuova paideia, un titolo ancora provvisorio); Paola Di Cori (novembre 2017), infaticabile e insostituibile redattrice, nonché curatrice di alcuni numeri (Il viaggio: ricerca di sé e degli altri. Certeau legge Favre e Figure oscillanti); e Mario Perniola (gennaio 2018) che ci ha onorato della sua presenza nel nostro Comitato scientifico, dispensando fraterni consigli, in continuo costruttivo confronto con la sua bella rivista Agalma (di cui festeggiammo il decennale nella nostra sede il giorno del suo settantesimo compleanno). A tutti loro va la nostra gratitudine e il nostro commosso ricordo.

Buona lettura!



About

Leussein (nasce nel 2008) in greco antico significa vedere cose luminose che suscitano emozione forti (stupore, gioia o timore) ma anche vedere lontano e vedere per i primi il futuro. Secondo Bruno Snell, il suo significato è simile a quello del tedesco schauen che si ritrova nel Faust "saper guardare è la nostra missione". Anche il logo che abbiamo scelto allude ad un libero procedere in mare aperto sorretto però da uno sguardo attento e lungimirante, insieme alla convinzione che, come dice Hegel, “il mare libero rende libero lo spirito”.


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