A 50 anni dalla morte di don Lorenzo Milani

Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali

Don Lorenzo Milani (Lettera a una professoressa)

Don Lorenzo Milani, a 44 anni appena compiuti, muore il 26 giugno 1967 per un linfoma di Hodgkin. Sono passati 50 anni dalla sua morte e la sua figura fa ancora molto discutere; c’è chi lo vede come un buon maestro e c’è chi cerca di scorgere in lui e nei suoi insegnamenti e nella vita che ha condotto dei lati negativi. Era nato a Firenze il 27 maggio 1923. Il priore di Barbiana è stato un figlio della borghesia fiorentina colta e agnostica; la madre Alice Weiss, era di origine israelita e di religione ebraica. Si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti di Brera e nel 1943 entrò in Seminario Maggiore a Firenze. Il 13 luglio 1947 fu ordinato prete. Fu imputato in un processo canonico del Sant’Uffizio per il suo primo libro “Esperienze pastorali”, dato alle stampe nel 1958 ma iniziato otto anni prima quando si trovava nella parrocchia di San Donato. Nel dicembre dello stesso anno il libro fu ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio, perché ritenuta “inopportuna” la lettura. Successivamente fu imputato in un processo penale per la sua difesa dell’obiezione di coscienza. Il 15 febbraio 1966, il processo in prima istanza si concluse con l’assoluzione ma su ricorso del pubblico ministero, la Corte d’Appello, quando don Lorenzo era già morto, modificava la sentenza di primo grado e condannava lo scritto. Nel luglio del 1966 insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana, una canonica del Mugello a pochi chilometri da Firenze, di fatto un luogo sperduto dell’Appennino, afflitto, ancora negli anni del miracolo economico, dalla miseria e dall’arretratezza, iniziò la stesura di Lettera a una professoressa che fu pubblicata nel maggio del 1967 per la piccola casa editrice fiorentina LEF. I suoi allievi, figli dei contadini del Mugello, in quella Barbiana, un luogo di esilio dove don Milani è arrivato il 7 dicembre del 1954, a 31 anni, ove non c’era acqua, né luce, né una strada per arrivarci e dove ci vivevano quaranta anime, sono stati con lui fino alla fine. Con loro ha scritto Lettera ad una professoressa che all’inizio doveva essere una lettera aperta di due o tre paginette. Uno scritto che investiva dei problemi che Don Milani aveva incontrato fin dall’inizio del suo sacerdozio; nel giro di poche settimane la lettera era diventata un libricino. Con essa intendeva costringere le insegnanti ad un esame di coscienza e contestualmente intendeva spiegare ai genitori dei tanti “Gianni” che devono protestare, che devono organizzarsi rivendicando per i loro figli il diritto a una scuola dell’obbligo che non sia più classista, tagliata su misura di coloro che la cultura l’hanno già in casa. Un testo duro e acuto contro una scuola pubblica che “è come un ospedale che cura i sani e respinge i malati” contro una pedagogia che esclude gli svogliati e i cretini e che si dimostra autoritaria e classista ed è causa ed effetto delle ingiustizie sociali. Ancor oggi qualcuno vede in questa battaglia condotta dal prete di Barbiana la causa, invece, della decadenza della scuola italiana che ha modificato i suoi assetti togliendo la meritocrazia tra i suoi obiettivi e appiattendosi su una sorta di egualitarismo che ha livellato verso il basso la cultura e l’apprendimento degli studenti. All’ingresso della scuola di Barbiana c’è ancora un cartello con la scritta inglese cara ai giovani americani dell’epoca “I care”, mi interessa, me ne importa, mi sta a cuore che è il contrario del ben noto motto fascista “me ne frego”. Era una scuola aperta 365 giorni l’anno, dove si studiava la Costituzione e si leggevano i giornali, dove si insegnava l’importanza delle parole; Don Milani in maniera cruda ce lo ricorda “Ogni parola che non capite oggi è un calcio in culo domani”. Ma Don Milani denunciava anche la sua Chiesa che respinge il suo popolo perché è fatta di rituali vuoti e altezzosi, lontani dal vangelo. Denuncia che era nel suo libro Esperienze pastorali, che gli costò l’esilio a Barbiana. Un esilio che per lui fu comunque dolce. Nelle lettere alla mamma continuava a dire che “… non contava il numero delle anime che la parrocchia ha ma quante di queste salverai”. Chi fu Don Milani? Fu soprattutto, e semplicemente, un curato di montagna e un maestro che stava dalla parte egli ultimi. Fu sepolto a Barbiana con gli scarponi di montagna ai piedi e l’abito da prete. Ancora oggi numerose scuole pubbliche portano il suo nome.

Donmilanismo

Da tempo, e in modo ciclico, di solito in concomitanza con gli anniversari, si parla di don Milani mettendo sotto accusa il suo insegnamento e quanto è presente nel suo libro più famoso Lettere ad una professoressa che fu per una generazione una sorta di “Libretto rosso” del movimento del sessantotto italiano. Per molti, oggi, viene visto come anello centrale di una riflessione sulla necessità di riformare il sistema educativo, che sfocerà nelle grandi battaglie per la scuola degli anni settanta nonché come l’inizio della fine di tutto: dell’autorità degli insegnanti, della voglia di studiare dei ragazzi, dello stare in disparte dei genitori. Alcuni autori hanno usato a tal proposito un determinato termine, che ha insito una forte connotazione negativa, ovvero quello di “donmilanismo”. Già nel 1992 a 25 anni dalla morte di don Milani, Sebastiano Vassalli su la Repubblica dichiarava che Lettere ad una professoressa era “Un libro-bandiera, più adatto ad essere impugnato e mostrato nei cortei che ad essere letto e meditato: ed infatti non furono molti, allora, quelli che si accorsero che la mitica Scuola di Barbiana cui veniva attribuita la paternità dell’ opera era in realtà una sorta di pre-scuola (o di dopo-scuola) parrocchiale, dove un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli dei contadini a conseguire un titolo di studio, e se non ci riusciva, incolpava i ricchi… l’ odio di classe, che il movimento operaio italiano aveva ripudiato già nell’ Ottocento e che tornava a riaffacciarsi, dopo quasi un secolo, nella prosa elegante e un po’ nevrotica di un prete di origine borghese. Tirato così fuori dal mito e riportato alle sue dimensioni terrene d’ insegnante, don Milani ci appare oggi come fu davvero: un maestro manesco e autoritario (quanti dei suoi sostenitori d’ un tempo hanno veramente saputo che nella Lettera c’ è l’ apologia della frusta, a pag. 82, e che a Barbiana erano considerati strumenti didattici scapaccioni, scappellotti, cazzotti, frustate e qualche salutare cignata?); un autocrate che non credeva nella pedagogia – in nessuna pedagogia, all’infuori della propria – e che trattava con sufficienza e con sarcasmo chi si azzardava a parlargli di libero sviluppo della personalità degli alunni e di altrettali sciocchezze borghesi. Venticinque anni dopo, in prossimità del cinquant’anni della morte del priore di Barbiana, il linguista Lorenzo Tomasin su Il Sole 24 Ore riprendeva tale polemica affermando che “…la scuola prefigurata dalla Lettera a una professoressaè giust’appunto quella che oggi tutti deprecano, avendola scoperta se possibile peggiore di quella che l’aveva preceduta, perché capace di creare, nel suo sgangherato egalitarismo, disparità e ingiustizie ancor più gravi di quelle imputate all’odiosa vecchia scuola. Intanto, al santino di don Milani, che considerava la professoressa privilegiata e persino strapagata, occhieggiano oggi i rappresentanti del corpo docente peggio pagato e peggio considerato dell’Occidente.” Nello stesso periodo la scrittrice Paola Mastracola sul medesimo giornale affermava che: “Nessuno mette in dubbio l’altissimo valore dell’operato di don Milani, e di tutti coloro che insieme a lui si batterono per aprire la scuola ai ceti meno avvantaggiati … Don Milani rimane a tutt’oggi, dopo cinquant’anni, l’unica forte icona (molto sacralizzata, invero!) cui continua a ispirarsi la nostra scuola. Infatti abbiamo emarginato sempre più la grammatica e la letteratura (dei classici, in primis) sostituendola con attività di vario intrattenimento Non dovremmo quindi stupirci se ora i nostri ragazzi non sono capaci di scrivere, non sanno dov’è il Caucaso, non studiano più latino e hanno un lessico ristrettissimo. Ma oggi il mondo è cambiato… Non abbiamo a scuola i figli dei contadini, e se li abbiamo, non versano nello stato di cinquant’anni fa. Non è un peccato avere nozioni, anzi dovrebbe essere necessario per qualsiasi mestiere, anche per l’insegnante. La scuola dovrebbe insegnare nozioni: dovrebbe condurre alla conoscenza … nozionismo, è una parola brutta, infame, vergognosa. Forse per questo chi si occupa di nozioni, come i professori, i maestri, sono considerati, come gli ultimi della terra.”. Nel corso del 2017 vi sono state anche forti polemiche sulla figura di don Milani alimentate dallo scrittore Walter Siti che nel suo ultimo romanzo “Bruciare tutto”, ha accostato il protagonista, un prete pedofilo, a don Milani a cui il libro è dedicato: questo è accaduto, spiega Siti citando alcune lettere scritte dal sacerdote di Barbiana“Perché mi è parso che don Milani ammettesse di provare attrazione fisica per i ragazzi”. Don Milani potenziale pedofilo? Siti una intervista a Repubblica correggeva il tiro, dopo, le aspre polemiche che aveva ricevuto, affermando “Ma se ho sbagliato l’interpretazione, allora la dedica è fuori bersaglio”.

Sicuramente don Milani è stato un uomo, un sacerdote, che con le sue prese di posizione, che si sono caratterizzate dallo stare sempre dalla parte degli ultimi, che poi è il titolo di uno strepitoso libro scritto da Neera Fallaci, ha creato più contrasti che consensi. A Barbiana si compie e si fa una rivoluzione; il cuore della lettera e di tutto l’insegnamento di don Milani non sta nel non bocciare, o nel disobbedire, quanto nel ben più impegnativo insegnare a tutti gli usi della parola. Bisogna tenere a mente che il libro riguarda la scuola dell’obbligo e non il liceo o l’università; a tal riguardo in una lettera inviata ai giudici don Milani affermava che “La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi.” Nel corso degli anni novanta del secolo scorso ed anche ai giorni nostri è esistito ed esiste un movimento di opinione variegato, conservatore e reazionario nei fatti, che come abbiamo accennato ha attribuito ad un vago “donmilanismo” la responsabilità della (presunta) decadenza della scuola rispetto al passato. La tesi è nota: la decadenza della scuola è fatta risalire alla cultura libertaria del Sessantotto che avrebbe cancellato il senso del dovere, della fatica e del merito e che è diventata essa stessa causa dell’ampliarsi di un certo analfabetismo e non il rimedio ad esso. Il donmilanismo è divenuto pertanto la prospettiva egemonica nella scuola italiana (fonte: Il Sole 24 ore, del 26 marzo 2017). Guido Crainz in Autobiografia di una repubblica scrive che la Lettera ad una professoressa è il più importante testo di culto della contestazione studentesca del 1968: “Certo è difficile trovare operazioni culturali così rigorose e incisive come quella di Barbiana che fa della lingua e del suo possesso l’elemento fondamentale dell’uguaglianza umana.” Ernesto Balducci, sacerdote e personalità di spicco nella cultura del mondo cattolico italiano nel periodo che accompagnò e seguì il Concilio Vaticano II, ha scritto di Don Milani “… ha scelto la via della rottura per aggredire il mondo degli altri e far nascere nella coscienza di tutti noi, prelati, preti, professori, comunisti, radicali e giornalisti, il piccolo amaro germoglio della vergogna”.[1] Don Milani sentiva la ferita del mondo, l’abbandono scolastico dei piccoli e la mancanza di parole di un mondo adulto cresciuto nell’ignoranza e nella solitudine. Educare, per il priore, significa ferirsi, farsi interrogare dal mondo dei poveri, tentare risposte, mettersi in discussione e anche quindi farsi del male. A tal riguardo nel libro Lettera ed una professoressa affermava, che “Le maestre son come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire. E’ bello vedere al di là dell’uscio della propria casa. Bisogna soltanto essere sicuri di non aver cacciato nessuno con le nostre mani”. Nell’altro suo libro (Esperienze pastorali, p. 311), parlando dei contadini, degli allevatori di bestiame, con dolore dice “Ecco la sua lingua, il suo elemento, il soliloquio con le pecore, l’unico uso che ha fatto del dono della parola in 84 anni di vita. Ha imparato la loro lingua e non la mia. E’ più fratello loro che mio. E io vesto lana e mangio cacio senza rimorso.” Avere la parola, capire e saper spiegare riducono la disuguaglianza, arricchire il lessico per il prete di Barbiana è una questione di democrazia. Dare più parole a chi ne ha meno è la base per poter attuare quel rimescolamento sociale necessario, per attivare quello che i sociologi chiamano ascensore sociale.

La tentazione peggiore è da una parte fare di don Milani un santino, dall’altra è attribuirgli una postuma paternità di una scuola facile e permissiva, che non boccia e non si cura dell’istruzione dei ragazzi. Proprio sulla scuola il priore con forza affermava “Vi siete forse illusi di poter fare una scuola democratica? È un errore. La scuola deve essere monarchica assolutista ed è democratica solo nel fine, in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia…”. Se la promozione e non la bocciatura era certo il suo credo, al priore di Barbiana era chiaro che la lotta culturale da fare, seppur difficile e impegnativa, era sottrarre alla povertà culturale chi vive ai margini della società: la sua scuola era una scuola di cultura a tempo pieno.

I libri di Eraldo Affinati e Michele Gesualdi ci aiutano a ricollocare la figura di don Milani nel giusto posto e dimensione al riparo da facili cortocircuiti e da prese di posizione partigiane.

Eraldo Affinati, L’uomo del futuro, sulle strade di Don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 2016, pp. 177, € 15,25

Il libro di Eraldo Affinati, L’uomo del futuro, sulle strade di Don Lorenzo Milani, edito da Mondadori, è frutto di un percorso personale fatto dall’autore visitando i luoghi della vita di don Milani; luoghi che si intrecciano con i viaggi fatti dall’autore nei cinque continenti dove sono presenti realtà educative tra le più difficili. Non ci interessa fare un sunto del libro riportando molte frasi presenti in esso, tratte anche dai libri del sacerdote di Barbiana. Ci interessa cogliere l’essenza del libro, un libro scritto in seconda persona, una scelta letteraria che pone l’autore di fronte a sé stesso con un tipo di scrittura che fa emergere il continuo dialogo che Affinati ha con la figura di don Milani. Affinati insegue l’insegnamento di don Milani partendo dalla giovinezza e dalla ribellione ai genitori, trattando la radice delle sue posizioni, talvolta estreme, andando in profondità ed analizzando l’essenza del suo operare e del suo lascito. La personalissima inchiesta si dipana di capitolo in capitolo che rappresenta una tappa diversa; dieci capitoli nei luoghi vissuti dal priore e altrettanti capitoli per i diari di viaggio: Firenze, dove nacque da una ricca e colta famiglia con madre di origine ebraica, dove frequentò il seminario e morì fra le braccia dei suoi scolari; Milano, luogo della formazione e della fallita vocazione pittorica; Montespertoli, sullo sfondo della Gigliola, la prestigiosa villa padronale; Castiglioncello, sede delle vacanze estive; San Donato di Calenzano, che vide il giovane viceparroco in azione nella prima scuola popolare da lui fondata; Barbiana, “penitenziario ecclesiastico”, in uno sperduto borgo dell’Appennino toscano, che fu il teatro della sua rivoluzione. E poi il mondo: New York, Città del Messico, Berlino, l’Africa, Pechino, la Russia, l’India, il Giappone, il Marocco. Lo Stesso Affinati ammette ad esempio che se non fosse andato a Montespertoli, se non avesse visto i poderi un tempo di proprietà della famiglia, sentito il profumo di fiori, fotografato il cipresso al quale Laura Milani, la nonna letterata, dedicò perfino una poesia, non avrebbe capito il viaggio intrapreso da don Lorenzo verso le strade storte, i tetti sfondati, il fango rappreso, le porte rotte, le stanze fredde, i sandali bucati, la vita senza parole, le croste sui ginocchi dei bambini balbuzienti e privi di parole. Montespertoli racchiude ancora quasi intatto il mistero della vocazione del “Pierino” che non si perdonò mai di essere nato benestante e borghese. Il peso delle sue origini borghesi di privilegiato, nato in una famiglia facoltosa di cattedratici agnostica ed ebraica da parte materna, lo portò, dopo la conversione al cattolicesimo nell’estate del 1943, a rifiutare quel suo status sociale e per tutta la sua vita si riferirà agli anni giovanili come a quelli “vissuti nelle tenebre e nell’errore”. E se davvero soffrì, come ipotizzava Indro Montanelli, di “un complesso d’inferiorità nei confronti del proletariato”, seppe comunque riscattarsi immergendosi nella loro vita. Il libro di Affinati è anche un libro su cosa significhi oggi essere un maestro. Le riflessioni di e su don Milani e le esperienze reali dell’insegnante Affinati si intrecciano di continuo. Essere un maestro ed avere a che fare con i ragazzi significa presiedere ai momenti cruciali della loro vita e delle scelte che loro stessi faranno. Un privilegio simile a quello di un padre, di un prete, insomma una vocazione. Il mondo raccontato da Affinati è un mondo omologato, frenetico, globalizzato e rumoroso, e in tale mondo riescono comunque a nascere e ad andare avanti luoghi speciali. Oggi chi sono i ragazzi di Barbiana e dove sarebbe stato don Lorenzo Milani? Secondo Affinati oggi i ragazzi di Barbiana vengono dall’Africa, dal Medio Oriente, sono quelli che arrivano sulle nostre coste e che vogliamo cacciare. Il priore di Barbiana poteva immaginare che li avremmo accolti così? Forse sì, avrebbe potuto sospettarlo. Per Affinati era l’uomo del futuro soprattutto perché aveva sognato una scuola che oggi stentiamo ancora a realizzare, ma della quale non possiamo rinunciare. È la scuola del maestro che si mette in gioco e guarda negli occhi il suo scolaro, che vuole salvarlo e dargli la parola. Lo stesso Affinati raccontando il suo libro afferma “Lorenzo Milani non ci ha lasciato metodi, piuttosto energia allo stato puro. Una sapienza del fare scuola. Ecco perché io, anche sulla scorta di una foto che lo ritrae a Barbiana con un bambino congolese in braccio, sono andato a cercarlo in giro per il mondo: nei villaggi africani, in certe bettole indiane, alla periferia di Pechino. Ne ho colto il riverbero negli occhi di un disertore russo. Ho rivisto in Africa i nuovi ragazzi di Barbiana. A Berlino gli adolescenti ribelli. A Città del Messico gli alunni svogliati. Nel mondo Arabo i bambini perduti. Sono stato a Ellis Island a parlare con i fantasmi degli immigrati italiani. E a Hiroshima, vicino all’ipocentro dove brucia la fiamma perenne, ho ripensato al fatto che il priore leggeva ai suoi piccoli contadini le lettere che Claude Eatherly, il pilota americano pentito, spediva a Gunthers Anders, filosofo tedesco.” Le persone che incontra in giro per il mondo, vecchi maestri di villaggio, suore, educatori e ragazzi che vivono in contesti difficili, ammalati, orfani che sopravvivono nelle grandi metropoli, con i loro sprazzi di unicità, dolore, eroismo e coraggio inconsapevole sono un po’ Don Milani e un po’ i ragazzi di Barbiana. L’insegnamento del prete di Barbiana è quello comunque di lottare anche nei contesti in cui si vive. E’ qui si snoda il percorso dell’autore che a Roma, nella sua città, macinando chilometri e chilometri, andando di chiesa in chiesa, ha collezionato una serie di “no”, decisi, desolati, imbarazzati, sempre irremovibili. Lo racconta nell’ultimo capitolo del suo libro; a Roma sembrava non esserci spazio, specialmente nelle parrocchie romane, per la “Penny Wirton”, la scuola di italiano per immigrati pensata da Affinati, con quattro ore di lezione a settimana. Tutto il corpo insegnante è volontario, integrato da liceali che svolgono così il tirocinio attivo previsto dalla riforma scolastica. Racconta Affinati “Hanno 16 o 17 anni. Insegnano l’alfabeto e il verbo essere agli Omar, ai Faris. Quando li vediamo trasformarsi, passare dal timore alla conoscenza reciproca, lì sentiamo don Milani”. Il lieto fine arriva dopo l’ultima pagina, dopo la cacciata dai locali della chiesa dei gesuiti di San Saba all’Aventino: “È stato il liceo scientifico statale Keplero a offrirci infine sette aule nel pomeriggio”. L’uomo del futuro aveva visto lontano, aveva gettato il seme per un raccolto non suo.

Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016, pp. 256, € 16,00

Il libro di Michele Gesualdi Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, edito da edizioni San Paolo, (p. 256) è scritto da un testimone di eccezione, un testimone oculare della vita di don Lorenzo Milani. Chi è Michele Gesualdi, da poco scomparso (Calenzano 18 gennaio 2018) a causa della malattia, la SLA (sclerosi laterale amiotrofica), che lo aveva negli ultimi anni profondamente segnato? Cenni biografici si trovano nelle pagine finali del libro, di cui la prefazione è stata scritta da Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e la postfazione è stata scritta da don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele e dell’Associazione Libera. Gesualdi fu uno dei primi sei allievi a Barbiana di don Milani assieme ad Agostino, Aldo, Carlo, Giancarlo e Silvano ed ai quali si aggiunse anche il fratello Francesco. Privilegiato, come lui stesso afferma (p. 225) perché ha vissuto a casa insieme a lui, all’Eda, la nonna Giulia e poi al fratello Francuccio. Privilegiato nonostante don Milani avesse avuto sempre paura che il Michele si sentisse un po’ più Pierino degli altri. Gesualdi fu inviato dal priore, dopo tre anni di studio con lui, in Germania per perfezionare il tedesco parlato e scritto. Lui stesso (p.249) racconta il giorno prima della partenza come una festa di tutto il paese. Tutte le famiglie si radunarono per esprimere la gioia e per incoraggiarlo. Addirittura viene riportata una battuta di Gino, uno dei mezzadri di Barbiana, che aveva combattuto sul fronte russo durante la seconda guerra mondiale “Come è cambiato il mondo! A noi ci hanno obbligati ad attraversare la frontiera col mitra in spalla, per uccidere e farsi uccidere, mentre i nostri figli attraversano il confine parlando le loro lingue per comunicare ed intendersi.”. In Germania Michele lavora e studia, si iscrive al sindacato e conosce le sofferenze degli immigrati italiani, turchi e spagnoli. Torna in Italia e continua la sua attività sindacale prima a Milano e poi a Sesto Fiorentino nella CISL. Si ritirò dall’incarico nel 1995 in concomitanza con l’impegno politico divenendo Presidente della Provincia di Firenze per due mandati consecutivi fino al 2004 quando gli successe Matteo Renzi. Dal 2004 si dedicò attivamente alla Fondazione Don Lorenzo Milani, di cui era presidente e socio fondatore assieme ad altri allievi del priore di Barbiana. Nel marzo 2017 scrisse una lettera aperta ai Presidenti delle due camere esortandoli ad affrettare l’iter burocratico per la legge che riguardava il testamento biologico, approvata, anche grazie alla sua personale lotta e al suo appello, il 14 dicembre 2017. Gesualdi nel suo libro ci presenta un uomo con la sua spiritualità asciutta e profonda, appassionato ai suoi poveri, la sua gente, di Calenzano e Barbiana, accusato di esclusivismo e classismo, incompreso dalla gerarchia ecclesiastica ma non da molti appartenenti al clero e al mondo laico. Nel libro sono racchiuse molte rivelazioni inedite sulla vita di don Milani ed anche le tante sofferenze che l’amore infinito che aveva per il Vangelo, i poveri e la Chiesa gli procurarono dentro e fuori la sua stessa comunità ecclesiale. Il libro, come osserva Andrea Riccardi nella prefazione, ci introduce alla conoscenza di don Milani e guida a capirne in profondità la figura. La vicenda biografica del priore di Barbiana viene in tal modo restituita nella sua essenzialità e ricchezza con uno stile asciutto e diretto. La narrazione della sua vita viene intervallata con brani tratti dalle lettere di don Milani ed è così che sembra quasi che lui stesso prenda la parola e parli di sé in prima persona Dopo l’ordinazione sacerdotale, nel 1947, don Lorenzo, venne nominato cappellano a San Donato a Calenzano, dove don Pugi era il Proposto. E’ qui che cominciò la sua “esperienza pastorale”, intensa e generosa, è qui che diede vita alla scuola popolare per gli operai ed i contadini del suo popolo, è qui che cominciò a farsi apprezzare come prete. Ma è anche a San Donato che iniziò ad attirarsi le antipatie di quanti, laici e sacerdoti, lo consideravano un seminatore di discordie. Saranno anche queste azioni di contrasto e maldicenza che, alla morte di don Pugi, chiuderanno a don Lorenzo la strada per subentrargli come proposto e gli apriranno, nel 1954, la strada scoscesa per l’esilio a Barbiana. Con la morte di don Pugi Lorenzo Milani rimase un po’ solo; nonostante questo fece di tutto per non cercare di condizionare le scelte della Curia rifiutandosi di recarsi presso i suoi superiori per smentire le maldicenze sul suo conto, per non cercare di cambiare il corso alla “volontà di Dio”. Don Luigi Ciotti raccontando questo (p. 242) afferma “Lorenzo ha 31 anni. Barbiana è un paesino di quattro case sperduto nell’Appennino Toscano. Uno di quei posti di cui si suole dire appunto ‘abbandonati da Dio’ se non fosse che proprio a Barbiana Dio permise a Lorenzo di saldare la terra e il cielo, il Vangelo e la giustizia sociale, l’essere cristiani e l’essere cittadini di questo mondo e per questo mondo”. Gesualdi nel suo libro sottolinea come in don Milani era presente la profonda ferita di una ingiustizia sociale che offende Dio e gli uomini. Chi ama veramente i poveri, invece, si batte ogni giorno per rimuovere le cause che provocano emarginazione sociale e umiliazione. Era questo un punto fermo nel suo insegnamento. L’esilio di Barbiana non è stato un errore momentaneo ma, come viene dimostrato nel libro, una volontà precisa che lo ha colpito per tutta la vita, ed anche dopo, nel tentativo di chiudergli la bocca e denigrare il suo modo di fare apostolato. Con lui non è stata tenera neppure la Magistratura, che lo ha processato per la sua difesa all’obiezione di coscienza e condannato per apologia di reato. Quand’era a Calenzano don Lorenzo cercava personaggi interessanti e li invitava a parlare alla scuola popolare. A Barbiana, riflette Gesualdi, è esattamente il contrario: sono le personalità politiche, religiose, socialmente impegnate e colte a cercarlo e si arrampicano fin lassù per respirare quell’esperienza. Don Lorenzo dalla “cattedra del niente” parla, insegna ed elabora nuovi pensieri per l’oggi e per il futuro (p. 23). Lo scontro don Milani lo ebbe con le gerarchie ecclesiastiche, che comunque rispettava ma con le quali non smetteva di dialogare anche in modo appassionato. La Chiesa di Firenze, con lei il cardinale Florit, come osserva Riccardi, non volle ricevere la sua eredità che invece fu raccolta da altri. Quella stessa Chiesa che si accorse in ritardo di aver commesso un enorme errore. Lo stesso Gesualdi fu testimone dell’ultimo colloquio con il Cardinale Florit, che sul suo diario annotò in maniera lapidaria giudizi su don Milani non proprio leggeri, ovvero come quello di essere un uomo pazzo, egocentrico, orgoglioso e squilibrato. Alla sua morte, quando ormai il Cardinale era in pensione, questi si recò sulla tomba del priore di Barbiana, dopo aver letto le sue lettere, come gesto di riconciliazione, fatto che vide lo stesso autore del libro testimone. La Chiesa di oggi con Papa Francesco ha riabilitato la figura di don Milani, eliminando dopo 56 anni la condanna al suo libro Esperienze pastorali, abbracciando la vita di don Lorenzo ed anche la sua attività pastorale.

Don Milani ha cambiato Barbiana? Secondo Gesualdi è paradossalmente accaduto il contrario (p. 22). In tutti gli scritti da Barbiana (Lettera ai cappellani militari, Lettera ai giudici, Lettera a una professoressa nonché la sua corrispondenza privata) don Lorenzo non è più il signorino che scrive con linguaggio colto e forbito ma il barbianese che scrive, parla e vede le cose dallo stesso punto di vista di quei montanari. Il libro è cadenzato dal succedersi di avvenimenti che riguardano la vita del priore e anche di quella di Gesualdi, che sono ricchi di aneddoti, come il rapporto con i non credenti, con bestemmino e con i comunisti; oppure fatta di momenti duri e di incontri, con la professoressa Adele Corradi e con professore Agostino Ammannati e accompagnata da alcune donne importanti per la vita del priore come l’Eda e nonna Giulia (la nonna di Gesualdi), ecc. Bellissime sono anche le foto che racchiudono il percorso di vita del priore di Barbiana. Da “signorino” a ultimo con gli ultimi, e, come ci racconta Michele Gesualdi, testimone anche del suo ultimo giorno di vita, di una storia personale e collettiva piena di contrasti e di momenti belli e miracolosi; l’ultimo miracolo lo comunicò don Milani a Michele dicendogli in punto di morte “In questa stanza c’è un cammello che passa dalla cruna dell’ago”.

– Eraldo Affinati, L’uomo del futuro, sulle strade di Don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 2016, pp. 177, € 15,25

– Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016, pp. 256, € 16,00


[1] Riportato da Neera Fallaci, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Milano libri edizioni, 1977, p. I.



Laureato in lettere indirizzo storico (La Sapienza) e in Scienze delle pubbliche amministrazioni (LUMSA), studioso di storia, si occupa in particolare delle categorie marginali tra il medioevo e l’epoca moderna analizzando anche la situazione di alcune minoranze, come quella degli zingari, nel contesto contemporaneo. Collabora con diverse riviste di studi umanistici e con Leussein sin dai primi numeri; è iscritto all’albo giornalisti, elenco pubblicisti di Roma.


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